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Tra i tanti temi dibattuti ed irrisolti del mondo fiscale agricolo, uno di quelli su cui regna la maggior confusione è quello relativo all’individuazione dell’aliquota corretta dell’imposta di registro in relazione alla costituzione di un diritto di servitù su un terreno agricolo.
Sulla questione, infatti, negli ultimi trent’anni si sono succedute diverse interpretazioni, offerte ora dall’Agenzia e ora dalla giurisprudenza, tra loro spesso contrastanti. Sul tema è tornata recentemente a pronunciarsi la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22198 del 5 settembre 2019, offrendo un nuovo interessante orientamento a favore del contribuente.
Il caso analizzato dalla Corte di Cassazione riguardava una società elettrica che aveva stipulato tre contratti di servitù su un terreno agricolo per la posa ed il mantenimento di una linea elettrica, di una linea dati e di alcuni tubi vuoti.
La registrazione di tale contratto era stata effettuata applicando l’imposta di registro dell’8% (elevata al 9% dal 1° gennaio 2014), ma l’Agenzia delle Entrate ha contestato tale scelta, inviando tre avvisi di liquidazione per il recupero della maggiore imposta non versata, in quanto, secondo l’Ufficio, essa doveva essere determinata utilizzando l’aliquota del 15%.
Nei primi due gradi di giudizio, le Commissioni Tributarie avevano accolto le doglianze della società contribuente, confermando come corretta l’avvenuta determinazione dell’imposta.
Chiamata a pronunciarsi sulla questione, la Corte di Cassazione non si è discostata dalle decisioni adottate dai giudici di merito: secondo gli Ermellini, infatti, la corretta aliquota da applicare alla costituzione di una servitù su un terreno agricolo era quella dell’8%.
Tale decisione si pone in continuità con l’unico precedente analizzato dalla Cassazione, che già si era conformemente pronunciata con la sentenza n. 16495 del 4 novembre 2003.
Come detto, però, sul tema non mancano le opinioni divergenti. Secondo la Commissione Tributaria Centrale (si veda, in tal senso, la sentenza n. 5423/1989), infatti, l’aliquota da applicare per la costituzione di servitù su fondo rustico è quella del 15% e in tal senso si è espressa anche l’Agenzia, con diversi documenti di prassi (risoluzioni n. 310163/1990, 92/E/2000 e 18/E/2013).
La confusione sul tema nasce dalla formulazione della norma di riferimento, ossia l’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al D.p.r. n. 131/1986, il quale stabilisce che si applica oggi l’aliquota del 9% per gli “atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento”.
Tale dicitura, però, non si ritrova successivamente, quando si parla delle diverse aliquote per la prima casa (2%), i terreni agricoli (15%) e il leasing abitativo (1,5%). In relazione a tali fattispecie, infatti, il legislatore ne afferma l’applicabilità con riferimento al “trasferimento”.
Le divergenze di interpretazione sviluppatesi nel tempo ruotano attorno a questa definizione: infatti se si dà al trasferimento un’accezione ampia, allora vi può rientrare anche la costituzione di diritti reali; al contrario, se la definizione è concepita in una logica “esclusiva”, allora l’aliquota del 15% dovrebbe essere applicata ai soli trasferimenti di diritti reali, mentre la loro costituzione sarebbe soggetta all’imposta di registro nella misura del 9%.
Quest’ultima impostazione è quella adottata dalla Corte di Cassazione nelle sue decisioni: in base a quanto ribadito anche nell’ultima pronuncia del 5 settembre, ai fini della determinazione dell’imposta non rileva la natura del terreno su cui è costituita la servitù. Infatti, sulla base del dettato normativo, la costituzione di un diritto reale è soggetta al 9%, mentre al suo trasferimento si applica la maggior imposta del 15%.