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Agriturismo, per la cassazione non è attività agricola

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sent. n. 16685/2015 ha fornito un orientamento, a dir poco allarmante, in ordine ai requisiti necessari per qualificare come agrituristica l’attività di ricezione ed ospitalità esercitata da un imprenditore agricolo.

La Suprema Corte, ha infatti stabilito che “Il riconoscimento della qualità agrituristica dell’attività di “ricezione ed ospitalità” richiede la contemporanea sussistenza della qualifica di imprenditore agricolo da parte del soggetto che la esercita, dell’esistenza di un rapporto di connessione e complementarietà con l’attività propriamente agricola e della permanenza della principalità di quest’ultima rispetto all’altra;con la conseguenza che non potrà essere considerata “agrituristica” un’attività di “ricezione” e di “ospitalità” svolta da un imprenditore che non possa qualificarsi come agricolo ovvero che non sia o che non sia più nel detto rapporto di “connessione e complementarietà” con l’attività agricola o, comunque, releghi quest’ultima in una posizione del tutto secondaria.

Gli indici presuntivi che hanno indotto la Suprema Corte a disconoscere la natura agricola dell’attività agrituristica sono i seguenti:

  • il quantitativo di merce acquistata da terzi era superiore a quella prodotta dall’azienda;
  • il lavoro svolto dalla ricorrente nell’azienda agricola era minore rispetto a quello prestato dai familiari e da terzi;
  • il reddito dell’attività di ristorazione era maggiore di quello ricavato con il fondo e anche il tempo dedicato agli ospiti superava quello riservato alla campagna. 

In sostanza, dalle motivazioni sopra esposte emerge come la Suprema Corte, in spregio alla normativa di carattere regionale, ritenga essenziale la prevalenza del reddito dell’attività agricola rispetto a quella agrituristica.

Orbene, quanto sostenuto dai Giudici di Legittimità appare totalmente erroneo e, soprattutto, si pone in palese contrasto con i principi che informano la disciplina delle attività agricole connesse fin dall’approvazione della legge di orientamento (D.lgs 228/2001) che ha modificato l’art. 2135 del codice civile.

Infatti, sia nella normativa di carattere nazionale che regionale, non è enunciato alcun criterio comparativo riferito al reddito prodotto.

Del resto, se le attività agricole connesse, fra cui quella agrituristica, sono state introdotte proprio al fine di offrire alle aziende agricole la possibilità di incrementare i propri margini reddituali (forma di integrazione del reddito) rispetto a quelli, estremamente esigui, derivanti dalla vendita dei prodotti agricoli coltivati, come si può pensare di porre un limite come quello enunciato dalla Suprema Corte.

Non solo, si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui l’intero prodotto coltivato in azienda venga conferito nell’attività agrituristica a seguito di passaggi interni, in questa ipotesi i redditi prodotti dall’attività agricola principale sarebbero pari a zero, quindi, seguendo i principi di cui sopra, non si potrebbe in alcun modo esercitare attività di agriturismo.  

La sentenza in commento ha ad oggetto problematiche di carattere previdenziale (INPS), ma vengono messi in discussione principi generali che inficiano la natura stessa dell’agriturismo che potrebbero generare conseguenze devastanti anche per quanto concerne l’inquadramento fiscale di tali attività.

Consulenzaagricola.it non condivide questa sentenza e si augura che il legislatore chiarisca la questione prima che le conseguenze siano irreparabili.

 

 



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