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Sviluppo sostenibile ed economia circolare, pur essendo due termini relativamente nuovi, come tutti i paradigmi economici, basano i loro principi su fondamenti teorici che hanno origini anche molto antiche (figura 1a).
Figura 1a - Evoluzione del pensiero economico ed ambientale
In letteratura, il termine “sostenibilità” compare tra le prime citazioni nel 1713, all’interno del testo “Sylvicultura oeconomica” scritto dal tedesco Hans Carl von Carlowitz. Costui fu il primo a coniare il termine nachhaltend, quando, essendo all’epoca il Direttore dell’Ufficio Reale del Regno di Sassonia, dovette affrontare il problema della carenza di legname. All’interno di tale testo, egli sostiene che si sarebbe dovuta raccogliere solo tanta legna, quanta ne sarebbe ricresciuta. Il termine nachhaltend, dunque, rappresenta l’origine di quello che, successivamente, è diventato nachhaltige entwicklung, in italiano sviluppo sostenibile.
Successivamente, nel 1798, in piena rivoluzione industriale, fu l’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus a fornire un ulteriore contributo all’ampliamento del concetto di sviluppo sostenibile. Malthus, infatti, nel suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, sostenne che la povertà e la fame sarebbero causate direttamente dall’elevato aumento demografico e dalla scarsità di risorse, in particolare di “terra fertile”. Tuttavia, bisogna contestualizzare tale affermazione al periodo che in quegli anni viveva il Regno Unito. Infatti, secondo Malthus, la crescita della produzione alimentare all’interno del Regno non cresceva allo stesso ritmo della popolazione, poiché la disponibilità di risorse naturali necessarie alla produzione di beni di prima necessità era costante; nello specifico, il riferimento era ai terreni agricoli “fertili” scarsi. Questa sua visione portò, dunque, l’economista inglese ad affermare che la rapida crescita della popolazione mondiale avrebbe presto esaurito le risorse della Terra.
Quest’opera ebbe un’importante influenza, tant’è che, nel 1848, il filosofo ed economista britannico John Stuart Mill, nella sua opera “Principi di politica economica”, ipotizzò la drammatica teoria secondo la quale la crescita economica illimitata avrebbe portato inevitabilmente alla distruzione dell’ambiente. Egli affermò, infatti, che anche una condizione stazionaria sarebbe stata preferibile ad una crescita economica infinita.
Fortunatamente, entrambi gli studiosi non immettevano nei loro modelli due determinanti variabili: lo sviluppo tecnologico e la crescita della conoscenza.
Arrivando alla grande crisi che colpì l'America e gli altri Paesi occidentali, nel periodo compreso tra il 1929 e il 1932, in quel contesto furono smentite le teorie della scuola economica cosiddetta “classica”, che ritenevano che il sistema economico si trova sempre in una situazione di equilibrio e i fenomeni di scostamento dalla piena occupazione del lavoro e degli altri fattori produttivi erano da considerarsi solo transitori, cioè fasi di passaggio tra due situazioni di equilibrio, che nel lungo periodo si sarebbe raggiunto.
Fu in questo contesto che si sviluppò la teoria dell'economista inglese John Maynard Keynes, vissuto tra il 1883 e il 1946 e autore della “Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta”, nella quale afferma che, per fa sì che ci sia una crescita economica, uno Stato deve raggiungere la piena occupazione e, inoltre, ha la necessità di stimolare la domanda aggregata, mediante la spesa pubblica. Egli affermò che la condizione tipica del sistema economico non è l'equilibrio, ma la sottoccupazione di risorse e di lavoro: le risorse disponibili e la domanda sono inferiori rispetto all'offerta. Questo fenomeno si verifica perché, anche al crescere del reddito, i consumi crescono in maniera meno che proporzionale.
Quindi, per poter mantenere un determinato volume di occupazione, è necessario che si effettuino investimenti sufficienti ad assorbire la differenza tra la produzione totale e i consumi. Per questo, Keynes riteneva necessario l'intervento dello Stato che, attraverso la spesa pubblica, può determinare un aumento del livello di occupazione e, di conseguenza, un aumento dei redditi delle famiglie e, quindi, dei consumi. Le imprese, di fronte all'aumento della domanda, avrebbero aumentato la produzione “creando” così nuovi posti di lavoro e innescando un meccanismo di ripresa.
Nel secondo dopoguerra, il modello relativo alla crescita ed al consumo prende sempre più forza e le problematiche, soprattutto a livello ambientale, non tardarono a manifestarsi.
L’alternarsi di periodi di crisi economica e di forte crescita ha comportato una continua applicazione del modello keynesiano e l'aumento della spesa pubblica in vari Paesi; tale strumento, essendo dispendioso, può portare lo Stato verso un disavanzo del bilancio, detto deficit spending, termine con il quale si intende proprio l'aumento del deficit, dovuto ad una crescita della spesa pubblica, che ha come finalità, però, quella di portare ad un aumento della domanda e dei consumi.
È proprio durante gli anni dello sviluppo economico che iniziano a nascere i primi gruppi ambientalisti e nuove scuole di pensiero, a favore di una crescita sostenibile.
Il primo testo che criticava fortemente tali dinamiche di sviluppo è rappresentato da “Primavera silenziosa”, pubblicato nel settembre del 1962 dalla biologa e zoologa statunitense Rachel Louise Carson. In quest’opera, la Carson portò all’attenzione del pubblico gli effetti devastanti del DDT e dei pesticidi sulla salute umana, animale e sull’intero ecosistema.
Successivamente, nel 1968, un gruppo internazionale di imprenditori, scienziati ed economisti, guidati da Arturo Peccei e Umberto Colombo, fondarono il “Club di Roma”, un’associazione non-profit il cui obiettivo principale fu quello di agire come catalizzatore degli studi sui cambiamenti globali, andando ad individuare le principali problematiche che l'umanità si sarebbe trovata ad affrontare, studiando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili.
A quattro anni dalla sua fondazione, nel 1972, l’associazione pubblicò il rapporto intitolato “I limiti dello sviluppo”, un testo fondamentale in cui furono aggregate le ricerche e i risultati da alcuni ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) sulle conseguenze che una continua crescita incontrollata avrebbero avuto sull’intero pianeta.
Sempre nel 1972, sull’onda della crescente coscienza sulla necessità della tutela delle risorse naturali, fu indetta la prima conferenza della Nazioni Unite riguardante l’ambiente, nota anche come Conferenza di Stoccolma, che segnò una tappa fondamentale nello sviluppo delle politiche internazionali per l’ambiente. Durante quest’evento non si parlò apertamente di ambiente, ma nel preambolo del testo si afferma di voler migliorare lo standard di vita.
Un altro importante contributo nell’ottica dello sviluppo sostenibile viene dalla pubblicazione, nel 1971, del saggio “La legge dell’entropia e il processo economico”, redatto dall’economista, matematico e statistico rumeno Nicholas Georgescu-Roegen. Nel suo testo, anch’egli critica fortemente il modello economico neo-classico, sottolineando che l’economia non debba essere considerata un fenomeno puramente tecnico, ma deve essere inserita in un contesto fisico e socio-economico. Proprio per questi studi, è ad oggi considerato il padre fondatore della teoria della bio-economia e della teoria della decrescita.
Secondo Georgescu-Roegen, le leggi della termodinamica, in particolar modo la legge dell’entropia, possono essere applicate all’economia. Sostanzialmente, dimostra che in ogni processo si verifica un particolare fenomeno, appunto l’entropia, ossia un residuo di energia che non è più trasformabile.
Inoltre, formula la quarta legge della termodinamica, rifiutata dal mondo scientifico della fisica, secondo cui qualunque manifestazione di vita produce entropia. Egli afferma che nel preciso istante in cui l’uomo ha iniziato ad utilizzare strumenti estranei al suo corpo, ha avviato un percorso evolutivo parallelo a quello biologico, ovvero quello economico.
È necessario dunque conciliare armonicamente i due processi evolutivi, attraverso un loro ripensamento, la bio-economia [1]. La bio-economia, quindi, così come intesa dal suo fondatore, è una teoria economica basata sul concetto di limite bio-fisico della crescita, applicato nel contesto di un sistema chiuso da un punto di vista termodinamico quale la Terra.
Il 1973 viene ricordato, tra gli altri avvenimenti importanti, come l’anno della “crisi energetica”. Infatti, a seguito della guerra tra Israele, Egitto e Siria, i Paesi mediorientali ridussero drasticamente le esportazioni di petrolio. Tutto questo, oltre ad avere, com’è facile intuire, una ripercussione a livello economico, portò gli Stati, che dal punto di vista energetico dipendevano fortemente da questi Paesi (sostanzialmente Stati Uniti ed Europa), ad interrogarsi sulla precarietà energetica a livello globale e a ricercare soluzioni diverse per il futuro. Si prese coscienza, per la prima volta, che era necessario trovare un’alternativa più sostenibile e disponibile del petrolio.
Nel 1976, l’architetto svizzero Walter R. Stahel, in collaborazione con la ricercatrice Geneviève Reday-Mulvey, realizzò il rapporto “Potential for Substitution Manpower for Energy” per la Commissione Europea, all’interno del quale il tema principalmente trattato fu quello dello spreco delle risorse legato alla dismissione di beni e prodotti invece della loro riparazione. La teoria che W. R. Stahel proponeva era quella di estendere il ciclo di vita degli edifici, e degli altri beni in generale, con lo scopo di minimizzare gli sprechi e i rifiuti.
Il report fu pubblicato successivamente, nel 1982, all’interno del libro “Jobs for tomorrow - Potential for Substitution Manpower for Energy” e, per la prima volta, compare in letteratura un modello economico diverso da quello lineare, ovvero l’economia circolare. Proprio per questo suo studio, l’architetto svizzero è considerato tra i “padri fondatori” dell’idea di economia circolare.
Stahel, prendendo ispirazione dai sistemi naturali, come ad esempio il ciclo dell’acqua, propone un sistema produttivo autorigenerante.
Negli stessi anni, Orio Giarini, un economista triestino, membro del “Club di Roma” e segretario generale dell’Associazione internazionale per lo studio dell’economia dell’assicurazione di Ginevra, poneva le basi per l’approfondimento delle opportunità offerte dall’economia dei servizi. Nel 1981 pubblica il suo studio “Dialogo sulla ricchezza e il benessere”, in cui critica fortemente il modello di economia lineare, ribadendo ancora una volta come sia necessario operare una sintesi tra economia ed ecologia e che le aziende debbano orientare la loro produzione in base alle ricchezze naturali disponibili, che l’autore chiama “dotazione” e “patrimonio”.
Nel 1982, Orio Giarini e Walter R. Stahel fondano il Product-Life Institute, con sede a Ginevra, il quale tuttora studia ed elabora strategie volte all’incremento della produttività dei materiali nel contesto della “società dei servizi”.
Sempre nel 1982, Walter R. Stahel pubblica un articolo intitolato “The Product-Life Factor”, in cui approfondisce i concetti già enunciati nei suoi precedenti lavori e formula in maniera più chiara il concetto di economia circolare (figura 1b).
In questo articolo, l’autore ribadisce che l’estensione della vita utile dei prodotti sia la base di partenza per avviare una transizione graduale verso una società sostenibile.
Ancora nel 1982, Lester R. Brown, fondatore e direttore del World Watch Institute, scrisse “Building sustainable society”. Tale studio era più che altro un appello per la nazione americana e, infatti, offriva ai lettori un avvertimento su quello che, con molta probabilità, sarebbe successo agli Stati Uniti se non avessero modificato il loro sistema industriale.
Nello studio, l’autore proponeva anche dei suggerimenti volti ad evitare questo tipo di situazione catastrofica, come: porre particolare attenzione allo stato dei mari; adoperare una conversione graduale verso fonti di energia rinnovabili; eseguire la riforestazione; sviluppare sistemi di trasporto sostenibili; cambiare i valori della società occidentale abbandonando il consumismo.
Figura 1b - Evoluzione del pensiero economico ed ambientale
Parallelamente, dopo dieci anni dalla Conferenza di Stoccolma, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite chiese alla Commissione mondiale su ambiente e sviluppo (World Commission on Environment and Development - WCED) di stilare un rapporto sulla situazione mondiale dell’ambiente e dello sviluppo. Il 4 agosto del 1987 venne presentato “Our Common Future”, anche detto “Rapporto Brundtland” dal nome del primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, allora presidente della Commissione.
Questo rapporto è considerato una tappa fondamentale, perché dalla pubblicazione di tale documento in poi, il concetto di sviluppo sostenibile, così come definito al suo interno, ha caratterizzato tutta la produzione normativa internazionale riguardante la tutela ambientale e sottolineato nuovamente che nelle politiche di sviluppo dei vari Stati non si potesse più prescindere dal considerare strumenti e misure volte alla protezione della natura e dell’ecosistema. |
Il concetto di sviluppo sostenibile, introdotto ufficialmente nel 1987, si basa sull’idea secondo cui bisogna dar vita a una forma di sviluppo che permetta alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni, ma che non intacchi l’ambiente a tal punto da compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze e la possibilità di godere delle risorse naturali.
Nel 1988, l’anno dopo la pubblicazione del Rapporto Brundtland, durante un convegno dell’Università delle Nazioni Unite, fu coniato il termine “metabolismo industriale”, mettendo in risalto il legame diretto esistente tra l’industria, dunque il sistema economico e produttivo, con gli equilibri dinamici dei cicli naturali fondamentali. Si prese atto, quindi, che le attività produttive antropiche rientrano nel metabolismo della biosfera. Il teorico che studiò ed elaborò tali teorie economiche fu il fisico americano Robert U. Ayres.
Secondo Ayres, per metabolismo industriale (o ecologia industriale) si intende “…una strategia di riduzione dell’impatto dei flussi antropici sulle risorse naturali, che prende a modello i processi ecosistemici del riciclo della materia e lo studio dei flussi di materie prime ed energia attraverso i sistemi industriali…”.
Da questa sua definizione si evince che questa strategia mira alla progettazione di processi produttivi che siano circolari e chiusi, in cui il rifiuto viene considerato come una nuova materia prima, utilizzabile in un altro processo. Il rifiuto rientra cioè nel circolo produttivo-economico.
Nel 1989 fu ancora una volta l’architetto svizzero Walter R. Stahel a fornire un ulteriore contributo, pubblicando “The Limits to Certainty”, in cui afferma che i limiti generalmente riscontrati nella crescita economica, come la scarsità delle materie prime, sono in realtà i limiti del modello economico lineare.
Agli inizi degli anni ’90, la comunità mondiale aveva definitivamente preso coscienza del fatto che, per far fronte a queste problematiche ambientali, era necessario sviluppare una serie di strategie a livello globale (e non di singolo Stato), per implementare il modello della sostenibilità.
Per questo motivo, nel 1992, la maggior parte dei Paesi si riunirono in una conferenza a Rio de Janeiro. Durante questo incontro vennero discusse e approvate tre dichiarazioni di principi e firmate due convenzioni globali.
Inoltre, venne istituita la Commissione per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (CSD) a cui furono affidati diversi compiti: elaborare indirizzi politici per le attività future; promuovere il dialogo e la costruzione di partenariati tra governi e gruppi sociali; assistere e vigilare l’attuazione del Piano d’Azione siglato a Rio, chiamato anche Agenda 21, e degli altri accordi internazionali.
Nel medesimo anno, anche l’Unione Europea discusse ed approvò il “Quinto piano di azione ambientale” al fine di rendere operativi gli accordi firmati a Rio. Il Piano auspicava cambiamenti nei modelli di comportamento delle società, promuovendo la partecipazione di tutti i settori.
Sempre nei primi anni ’90, il noto studioso Ernst Ulrich von Weizsäcker fondò il Wuppertal Institute for Climate, Energy and Environment. I suoi studi erano rivolti soprattutto verso i decisori politici. Lo studioso, infatti, sosteneva che qualsiasi attività imprenditoriale debba essere supportata da politiche economiche e sociali, che permettano di definirsi ed evolversi nel tempo.
Un importante contributo all’istituto venne da Amory Bloch Lovins, un fisico e ambientalista statunitense che, già dagli anni ‘70, studiava ed elaborava modelli contro gli sprechi di energia. Infatti, nel 1980, quest’ultimo, insieme alla sua ex-moglie e collega Lee Hunter Lovins, fondò in Colorado il Rocky Mountain Institute, tuttora considerato uno dei centri di analisi più innovativi in campo di efficienza energetica.
Dall’incontro avvenuto al “Club di Roma” tra Ernst Ulrich von Weizsäcker e la Lovins, venne sviluppato il rapporto noto come “Fattore 4”, successivamente pubblicato nel 1995 nel libro “Factor 4: Doubling Wealth, Halving Resource Use”, in cui gli autori dimostrano come fosse necessario migliorare l’efficienza delle risorse per raggiungere una sostenibilità ecologica e sociale dello sviluppo.
Si parla per la prima volta di “Rivoluzione dell’efficienza”.
In particolare, il rapporto mostrava come fosse possibile quadruplicare la produttività delle risorse con le tecnologie già presenti all’epoca. Nel testo vennero riportati circa cinquanta esempi reali, grazie ai quali si è potuto rendere l’uso dell’energia e delle risorse quattro volte più efficiente.
Sempre nell’ambito del Wuppertal Institute for Climate, Energy and Environment, nel 1994, il fisico e chimico nucleare tedesco Friederich Schmidt-Bleek creò il “Factor 10 Club”, un’aggregazione di studiosi di fama internazionale che hanno prodotto importanti documenti in cui affermavano che l’efficienza nell’uso dell’energia, delle risorse naturali e degli altri materiali nella produzione di beni e di servizi, poteva essere incrementata di dieci volte nell’arco di venticinque anni.
Dall’incontro tra il “Club di Roma” e il “Wuppertal Institute”, avvenuto nel 1995, nacque il rapporto “Taking nature into account”, in cui si promuoveva il superamento del concetto classico di PIL, per valutare la ricchezza prodotta da un determinato Paese, proponendo uno strumento nuovo che teneva in considerazione anche l’impatto ambientale delle attività di produzione.
Nel 2000 vennero definiti gli “Obiettivi del Millennio”, ossia gli obiettivi che i 193 Paesi membri dell’ONU si impegnarono a raggiungere entro il 2015, uno dei quali, appunto, riguardava la sostenibilità ambientale.
Per quanto riguarda lo sviluppo del concetto circolare dell’economia, il 2002 rappresenta un anno molto importante, in quanto venne pubblicato un testo che ancora oggi è considerato una delle opere di riferimento in tale ambito, ovvero il libro “Cradle to Cradle” (dalla culla alla culla) scritto dall’architetto americano William McDonough e dal chimico tedesco Michael Braungart (figura 1c).
Figura 1c - Evoluzione del pensiero economico ed ambientale
I due autori, partendo dal paradigma economico lineare, portano ancora una volta all’attenzione dei lettori gli enormi sprechi del sistema industriale, in cui i prodotti vengono gettati via poco dopo essere stati acquistati ed utilizzati dai consumatori, con un enorme spreco di risorse e provocando ingenti danni all’ambiente circostante.
Per W. McDonough e M. Braungart era necessario andare oltre il concetto di eco-efficienza (“fare di più con meno”) e propongono un nuovo concetto, quello di eco-efficacia. Nonostante di primo acchito i due termini possano risultare molto simili, il termine eco-efficacia intende traslare i cicli industriali all’interno dei cicli naturali, eliminando il concetto di rifiuto e, quindi, rendere gli scarti provenienti da una determinata produzione, materia con cui alimentare altri processi.
Altro importante contributo alla definizione dei concetti di economia circolare è quello fornito nel 2010 dall’economista belga Gunter Pauli, con la stesura del suo rapporto intitolato “Blue economy” consegnato al “Club di Roma”. All’interno di questo elaborato, Pauli racchiude oltre venti anni di esperienze e progetti e, inoltre, propone possibili soluzioni fino ad elaborare (anche grazie alla sua fondazione, la ZERI Foundation, costituita nel 1994) un movimento che porta avanti i principi di “zero” rifiuti e di economia auto-rigenerativa.
Pauli pone al centro del suo ragionamento l’importanza della biodiversità della natura. Sostiene, infatti, che integrando il concetto di biodiversità alle diverse attività antropiche, è possibile raggiungere uno sviluppo armonico e sostenibile nel lungo periodo. L’economista belga propose una via di sviluppo basata sui sistemi integrati, sul concetto delle bio-raffinerie locali e sulla ricerca di soluzioni tecniche che imitassero la natura nel suo complesso, enfatizzando le opportunità che sarebbe stato possibile cogliere.
Nel 2012 si arrivò finalmente ad avere una definizione chiara del concetto di economia circolare. Questa venne fornita dalla Elle McArthur Foundation, la quale tutt’oggi si impegna a diffondere tale ideologia a imprese ed istituzioni.
"…un'economia industriale che è concettualmente rigenerativa e riproduce la natura nel migliorare e ottimizzare in modo attivo i sistemi mediante i quali opera…” (http://www.ellenmacarthurfoundation.org/).
Tuttavia, a livello istituzionale, il termine economia circolare venne utilizzato per la prima volta solo nel 2014 al World Economic Forum di Davos in Svizzera. L’anno dopo, precisamente il 2 dicembre 2015, la Commissione Europea presentò il pacchetto sull’economia circolare chiamato “L’anello mancante: un piano d’azione europeo per l’economia circolare”, che definì gli obiettivi volti a ridurre la pressione esercitata sulle risorse naturali e a stimolare il mercato delle materie prime secondarie.
Infine, nel 2017, il concetto di economia circolare compare per la prima volta anche nel processo legislativo italiano, all’interno del documento elaborato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) e dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) intitolato “Verso un modello di economia circolare per l’Italia: Documento di inquadramento e posizionamento strategico”.
Per concludere questa parte storico-introduttiva, si può affermare che il processo di cambiamento verso modelli di sviluppo sostenibile e di “circolarità” dell’economia è inevitabile e determinerà il futuro della società, degli stili di vita e, quindi, anche le modalità di proporre progetti di investimento in un’ottica non solo pubblica, ma anche privata.
Questo atteggiamento è direttamente collegato con il comportamento con cui il singolo individuo reagisce al concetto di tempo; chi è poco interessato all'ambiente ed alle generazioni future non si preoccupa di agire in modo sostenibile e di tutelare il patrimonio naturale.
Il concetto di “capitale naturale” fornito dalle risorse ambientali, ormai accettato da molti economisti ([2]), è importante per la comprensione del ruolo economico dell'ambiente nel processo di sviluppo in termini di sostenibilità. Se si accetta che l'insieme delle risorse naturali rappresenta un patrimonio in grado di fornire un flusso di beni e di servizi non illimitato, lo stesso può essere considerato alla stregua di un capitale finanziario.
A ciò può essere assegnata una certa fruttuosità (determinata dalle leggi naturali bio-fisiche che regolano i processi ambientali), della quale si può usufruire periodicamente (come se fosse un interesse finanziario) ed è l'unica quota parte utilizzabile, che non pregiudica il consumo futuro e non riduce il capitale iniziale, difficilmente rinnovabile.
La metafora riferita al risparmio bancario è una intuitiva definizione di quanto accade in natura per le risorse rinnovabili. Infatti, se un individuo consuma più della “quota interesse” maturata periodicamente, consuma anche la quota capitale, diminuendo sia l'interesse fruibile in futuro, sia il capitale iniziale, fino all'esaurimento dello stesso.
È possibile realizzare un sistema produttivo sostenibile, cercando di passare da un modello lineare ad uno circolare. Se si collegasse il processo produttivo e/o di trasformazione con le risorse naturali si potrebbero individuare tre nuove funzioni dell'ambiente, quali (figura 2):
Figura 2 - Esempio di sistema produttivo circolare
Fonte: Pearce D., Turner R. (1991), "Economia delle risorse naturali e dell'ambiente", Il Mulino, Bologna.
Sono funzioni economiche perché possiedono un valore: se si potessero vendere e/o acquistare su un mercato, esse avrebbero dei prezzi. I pericoli nascono dall'utilizzo erroneo dell'ambiente naturale, dal momento che non si considerano queste funzioni ed i relativi valori economici.
I sistemi economici possono continuare ad esistere per lunghi periodi in condizioni di disequilibrio, ma l'obiettivo per il futuro è la sostenibilità e la riproducibilità, cioè fissare alcune condizioni di compatibilità tra sistemi economici tradizionali ed ambiente; l'ambiente può generare ulteriore utilità, se è opportunamente considerato l'effetto di riciclaggio che può autonomamente offrire (URIF) e il valore che le risorse naturali (UNAT) possiedono per il solo motivo di esistere (in estimo è comparso di recente un nuovo criterio di stima definito “valore di esistenza”). In particolare, alcune regole possono essere assunte per la sostenibilità di un processo produttivo:
[1] Si veda: Tinacci Mossello M., Politica dell’ambiente. Analisi, azioni, progetti, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 47-52.
[2] Si ricorda, a questo proposito, le idee innovatrici di H. Daly, contrapposte alla teoria Keynesiana, secondo il quale “...l'economia umana è passata da un'era nella quale il capitale prodotto dall'uomo era il fattore limitante nella crescita economica ad un'era in cui il capitale naturale rimasto è il fattore limitante”. Si veda in questo contesto la relazione di Ciani A., Cocco S. (1995), "Sviluppo sostenibile: dal micro al macro", presentata alla Conferenza del Prof. D. Pearce "Sviluppo sostenibile: quali contenuti?", Facoltà di Agraria, 16 gennaio 1996, Perugia.
[3] Il carico di una nave è una giusta metafora del comportamento dell'uomo negli anni recenti. Il problema di collocare i rifiuti da lui prodotti è stato affrontato partendo dal numero di "containers" che la nave può contenere e, poi, dalla disposizione sulla nave affinché il carico sbilanciato non causi problemi alla navigazione; ma l'uomo non si è ancora interessato di quanti "containers" può caricare la nave.