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Nel febbraio 2016, l’allora Primo Ministro inglese, del Partito Conservatore, David Cameron negoziò un accordo con gli altri leader europei per rafforzare lo status di “membro speciale” del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea e decise di indire un referendum per far esprimere gli elettori sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione.
Il 23 giugno 2016 i “leave” ottennero il 51,9% dei voti a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Il 29 marzo 2017, viene avviata la procedura di uscita secondo quanto previsto dall’articolo 50 del Trattato sull'Unione europea - TUE, nell’ipotesi di recesso volontario e unilaterale di uno Stato membro. Esso definisce la procedura di recesso in base alla quale l'UE negozia il recesso e conclude un accordo con lo Stato membro che decide di recedere. A questo sono seguiti una serie di negoziati, rinvii, bocciature e di nuovo negoziati, sino ad arrivare alla data del 31 dicembre 2019, ultimo giorno di permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Tuttavia, la Brexit ha previsto un anno di transizione (tutto il 2020) dove di fatto tutto è rimasto invariato, la normativa vigente è ancora quella europea e i rapporti commerciali sono rimasti i medesimi, con il Regno Unito all’interno del mercato unico e nell’unione doganale. La transizione terminerà quindi il 31 dicembre 2020. A tal proposito, da più parti si è auspicato che il periodo di transizione venisse esteso oltre la fine dell’anno, anche se la proroga poteva essere richiesta entro giugno 2020 e ciò non è avvenuto. Si ricorda, altresì, che tale possibilità richiede, dal lato inglese, una nuova legge che abroghi la precedente e preveda tale scelta in senso contrario rispetto a quanto previsto dalla legge attuale.
I negoziati, ad oggi (18 dicembre 2020), non hanno portato a nulla, di fatto, e se le cose non dovessero cambiare, entro fine anno, con un accordo, il Regno Unito sarà comunque fuori dall’Unione in via definitiva. Questa eventualità richiama lo scenario ipotizzato negli ultimi tre anni, noto come No Deal.
Ma quali sono ancora i possibili scenari?
L'OCSE, in tal senso, stima per il Regno Unito una perdita di crescita del PIL pari a 2-2,5% nei primi due anni, e nel primo anno una caduta degli investimenti privati del 9% ed un aumento dell'inflazione di 3/4 di punto; per i Paesi dell'area euro una perdita di crescita del PIL pari a 0,5% nei primi due anni, con effetti maggiori sull'andamento economico di Paesi piccoli con maggiori legami commerciali con il Regno Unito quali: Irlanda, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca; nel medio lungo periodo ci sarebbe una considerevole contrazione dei flussi commerciali in alcuni settori quali auto e ricambi auto, prodotti tessili e servizi finanziari.
Si ricorda che, secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2018, l'interscambio commerciale tra Regno Unito e Italia è stato pari a 34,59 miliardi di euro, di cui 23,45 miliardi di euro per esportazioni dell'Italia nel Regno Unito e 11,14 miliardi di euro per importazioni dal Regno Unito, con una bilancia commerciale positiva per 12,31 miliardi di euro. Il Regno Unito è il 5° mercato di destinazione delle esportazioni italiane (dopo quelli di Germania, Francia, USA e Svizzera), rappresentando circa il 5,1% dell'export dell'Italia verso il mondo, e il 10° Paese fornitore con il 2,6% dell'import totale italiano (Fonte: Osservatorio economico MISE, ottobre 2019).
Per l'Italia, l'applicazione del regime commerciale OMC/WTO determinerebbe dazi elevati per alcuni comparti (per la stima delle tariffe medie, vengono utilizzate le informazioni tratte dal WTO’s Integrated Data Base sui dazi MFN applicati dall’Unione Europea ai membri dell’OMC), in particolare si fa riferimento all'agroalimentare, con i principali settori lattiero-caseario, conserve, pasta, olio e insaccati a soffrirne maggiormente con un dazio medio del 13%, all'abbigliamento con un dazio medio dell'11% e delle calzature a cui si applicherebbe un dazio medio del 9,1%; il comparto auto registrerebbe un dazio medio dell’8,8%, mentre risulterebbe poco penalizzato il settore dei macchinari e apparecchiature, in quanto caratterizzato da un dazio medio pari al 2,1%. Nel complesso, i comparti agroalimentare, moda e auto valgono il 30,2% del Made in Italy nel Regno Unito e, in media, segnalerebbe un dazio del 10,6% a fronte del 5,0% medio delle esportazioni sul mercato britannico (Fonte: Confartigianato, settembre 2019).
Gli effetti sulle relazioni commerciali bilaterali rimangono poco chiari e si è sempre più convinti che, a prevalere, sarà per cittadini ed imprese lo scenario peggiore: un No Deal, per l’appunto. Problematiche doganali, logistica, certificazioni, etichettatura, gestione delle merci, imposte dirette ed indirette saranno voci di costo quali dirette conseguenze del No Deal, sia quale maggiore carico tributario sia quale maggiore “peso” in termini di compliance per le imprese coinvolte. Infatti, l’adeguamento al post Brexit comporterà inevitabilmente per le imprese europee un maggiore onere come su evidenziato per modificare procedure di fatturazione (da cessioni intracomunitarie ad operazioni di esportazione), adeguamento gestionali, variazioni fiscali ed adeguamento alla normativa doganale, inclusi i costi derivanti per adeguamento di packaging, per l’attuazione del nuovo sistema di marcatura inglese denominato UCKA nonché per rispondere alle mutate regole di etichettatura inglesi. Particolare impatto avranno le questioni doganali, la compliance e il riassetto delle procedure dell’attribuzione del “Made in UE” e dell’origine preferenziale, l’obbligo di apertura di rappresentanze fiscali per quelle imprese che, per questioni contrattuali, saranno costrette a vendere nel Regno Unito con resa DDP (Delivery Duty Paid) ICC Incoterms 2020.
Per quanto concerne invece le conseguenze sull’IVA, si evidenzia che, a partire dal 1° gennaio 2021, le operazioni che sino al 31 dicembre 2020 sono trattate come cessioni o acquisti intracomunitarie di beni saranno sostituite da operazioni di esportazioni/importazioni. Altre conseguenze fiscali riguarderanno quelle imprese che potranno vedersi una maggiore tassazione dei redditi passivi (dividendi, interessi e royalties). Infatti, rispetto a questi ultimi, venendo meno le direttive comunitarie che stabilivano esenzioni al riguardo, con la Brexit, invece, tale materia verrà regolata dalla normativa nazionale italiana e inglese nonché dalla convenzione contro le doppie imposizioni.
Infine, le movimentazioni commerciali di prodotti sottoposti ad accisa da e verso UK post Brexit, prevalentemente bevande alcoliche, vino e birra, subiranno una modifica delle formalità procedurali da adempiere per avviare e condurre a termine senza irregolarità i trasferimenti dei beni. Per la disciplina della circolazione di tali prodotti nel territorio dell’Unione Europea, l’attuale quadro normativo di riferimento trova fondamento nelle disposizioni recate dalla Direttiva 2008/118/CE del Consiglio del 16 dicembre 2008, integralmente recepite dal Decreto Legislativo 26/10/1995, n. 504, Testo Unico delle Accise. Dal 1° gennaio 2021, in assenza di alcun accordo (ipotesi No Deal), per la circolazione di tali prodotti, da e verso UK, dovranno essere applicati i regimi doganali di esportazione ed importazione, rispettivamente nei casi di uscita delle merci dal territorio doganale dell’Unione verso UK o di introduzione nel territorio dello Stato di beni provenienti dal Regno Unito.
Con riferimento in particolare al settore vino, si evidenzia che mentre oggi, nel caso di trasferimento di vino dal territorio nazionale verso UK, l’operatore nazionale esercente deposito fiscale fa circolare il prodotto previa emissione di e-AD; nel caso si tratti di un piccolo produttore (esercente che produce quantitativi di vino inferiori a 1.000 hl all’anno in media), la circolazione avviene con emissione del documento di accompagnamento dei prodotti vitivinicoli (MVV). La situazione post Hard Brexit concretizzerà l’attuazione delle procedure doganali. Per la descritta movimentazione si renderà pertanto necessaria l’applicazione del regime di esportazione con trasmissione della dichiarazione doganale da parte dell’operatore economico nazionale all’ufficio doganale di esportazione. Nelle due ipotesi che potranno prospettarsi, ufficio doganale di uscita in territorio italiano o situato in altro Stato membro, il vino perverrà alla dogana di uscita, nazionale o comunitaria, dal quale lascerà il territorio dell’Unione Europea scortato, rispettivamente per le due figure sopra delineate, da e-AD oppure MVV.[1]
[1] Cfr Agenzia delle Dogane, 22 Febbraio 2019. Direzione Centrale Legislazione e Procedure Accise e altre Imposte Indirette - “Linee guida sulle movimentazioni commerciali di prodotti sottoposti ad accisa da e verso il Regno Unito”