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Negli ultimi anni i disastri ambientali prodotti dagli effetti dei cambiamenti climatici hanno alimentato quotidianamente le cronache dei giornali.
Eppure al G20 di Roma e alla COP26 di Glasgow il tempo sembra essersi fermato e la retorica dei politici e dei media continua a descrivere i decenni di inazione climatica come uno sforzo per contrastare l’emergenza del secolo.
Prima di addentrarci nell’analisi degli esiti romani e scozzesi, vale la pena guardare a chi aveva saputo indicare, già dal 1994, una possibile rotta. Diceva Alexander Langer (ambientalista dell’Alto Adige) in un famoso articolo che “la domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta”. Il monito di Langer rimane tremendamente attuale. “La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha fino ad ora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e dei controlli – aggiungeva Langer – e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario”.
È proprio questo il punto che deve essere affrontato: quanti sono a desiderare quella che oggi chiamiamo “transizione ecologica”, molti o pochi? Mentre la maggioranza della popolazione vive in un stato a metà tra ignoranza e inconsapevolezza, incapace anche solo di immaginare altri modi e altri mondi che non siano legati all’economia lineare e non a quella circolare.
Inoltre è importante sottolineare che i cambiamenti climatici porteranno ad uno stravolgimento anche delle attività agricole in quanto clima e territorio muteranno, pertanto, anche l’agricoltura dovrà adattarsi ai mutamenti che avverranno.
Ancor prima dell’inizio delle negoziazioni, i dati degli organismi ONU parlavano già chiaro sull’insufficienza delle azioni messe in campo da stati e imprese. Con il report “Production gap”, uscito a ottobre 2021, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), lanciava già l’allarme: secondo lo studio i quindici principali produttori di combustibili fossili al mondo prevedono di produrre in totale il 110% in più di combustibili fossili al 2030, rispetto a quanto sarebbe coerente per limitare le temperature agli ormai famosi + 1,5 gradi, e il 45% in più rispetto al limite dei +2 gradi entro il 2100.
“È stato un summit di successo nel senso di mantenere vivi i sogni, gli impegni con ulteriori provvedimenti, stanziamento di denaro e ulteriori promesse di riduzione”. In questa frase del premier Mario Draghi, nella conferenza stampa post G20, c’è tutto il senso del vertice che, come tanti altri in passato, continua a rinviare le soluzioni nell’incapacità di mettere tutti d’accordo. Non solo alle azioni si preferiscono gli impegni, ma questi risultano generici e senza date precise.
C’era molta attesa sui temi ambientali e climatici ma nel documento finale del G20 di Roma i grandi della Terra non sono riusciti ad accordarsi su una data per il raggiungimento delle emissioni zero. Finora era il 2050 l’orizzonte temporale sul quale gli Stati avevano provato a convergere - con la notevole eccezione della Cina, che l’aveva spostato per sé al 2060 - per provare ad attenuare la crisi climatica in corso attraverso un azzeramento delle emissioni di gas serra, da raggiungere in trent’anni. Oggi invece, quell’orizzonte temporale, viene ulteriormente sfocato con l’inusuale formula “entro la metà del secolo”.
L’unico passo avanti concreto è legato al carbone: i Governi non finanzieranno più nuove centrali all’estero alimentate da questa fonte fossile. Ma potranno continuare a farlo sui loro territori, con Stati come la Cina (dove il 63% dell’energia elettrica deriva dalle centrali a carbone) e l’India disseminati sempre più di impianti che sarà molto difficile dismettere. Viene poi ribadito l’impegno di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi, anziché a 2 gradi, ma si tratta sostanzialmente della riproposizione dell’Accordo di Parigi della COP21, firmato nel 2015. In questi sei anni, intanto, la crisi climatica si è notevolmente acuita, l’intero globo è stato pervaso da una pandemia ed è partita una crisi delle materie prime che promette di essere la prima di una lunga serie.
Non è andata molto meglio anche nel documento finale della COP26 “Patto per il clima”, pubblicato dopo una notte di negoziati il 14 novembre, nel quale il Presidente Alok Sharma ha ribadito la necessità di proteggere il pacchetto esistente.
La delusione riguarda in particolare due questioni centrali: i capitoli del documento relativi a finanza e mitigazione. Non c’è, infatti, l’impegno a mantenere l’aumento della temperatura media del Pianeta entro gli 1,5 gradi. Il patto impegna gli Stati firmatari solo a “sforzarsi di rimanere” al di sotto di questa soglia, ma l’obiettivo è fissato ai 2°C, come già previsto dall’accordo di Parigi del 2015. Il tentativo di tenere in vita il limite degli 1,5°C è stato uno dei punti di discussione più difficili da sciogliere nelle trattative. Ma secondo le stime degli esperti, con gli impegni presi a Glasgow sarebbe difficile rispettare la promessa.
Il secondo annuncio disatteso riguarda i 100 miliari ai Paesi meno sviluppati. Proposti nel 2009 e poi riconfermati nel 2015 dopo l’accordo di Parigi, di fatto non si sono mai raggiunti. La COP26 era stata l’occasione per tornare a fare il punto sui finanziamenti: sia il Primo Ministro britannico Boris Johnson, che il Presidente statunitense Biden ne avevano sottolineata l’importanza. Il fondo è stato presente nella bozza del patto fino alla sua versione finale, dove però i soldi sono di nuovo spariti dal testo.
L’ultimo grande fallimento è l’impegno ad uscire dal carbone. Nella bozza i membri della COP26 si impegnavano ad un “phasing out” del carbone, dunque ad abbandonarlo. Ma per l’opposizione forte di Cina e India durante l’ultima giornata di negoziati si è accolta la formula più blanda di “phase down unabated fuels”. In sostanza ci si impegna “a ridurre (non eliminare) le risorse fossili che non possono essere abbattute”: restano escluse da questo sforzo quindi tutte le fonti (come il gas) che invece si possono compensare con tecnologie come la cattura e lo stoccaggio i CO2.
Tra i pochi risultati positivi la richiesta agli Stati di “rivedere a livello nazionale i propri target di emissione entro la fine del 2022 in modo da rispettare gli obiettivi di Parigi”, ma se il check annuale del prossimo anno appare come una buona notizia, alla luce delle indecisioni mostrate sui punti chiave del patto, suona più come l’ennesimo rinvio.
Si aggiunge l’impegno a valutare un finanziamento per “danni e perdite” dei Paesi svantaggiati e colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici, un paragrafo rafforzato nelle ultime giornate a seguito delle pressioni dei delegati dei Paesi interessati ai finanziamenti.
Tutte le discussioni dei punti sopracitati sono rimandate al prossimo incontro del 2022 in Egitto.
Si riconosce infine l’importanza del dialogo con i giovani, con piattaforme ad hoc dedicate.
Nelle venti pagine del documento finale del G20 di Roma, all’economia circolare vengono destinate due citazioni. E vale a dire solo correlazioni con le città e la finanza sostenibile. Nella prima citazione i potenti della Terra, “con il coinvolgimento di imprese, cittadini, mondo accademico e le organizzazioni della società civile” intendono implementare gli sforzi “per raggiungere una sostenibilità dei modelli di consumo e della produzione e gestione e riduzione delle emissioni, anche adottando approcci di economia circolare”, attraverso il sostegno ad “azioni locali per la mitigazione del clima e l’adattamento”. Un passaggio questo molto limitativo rispetto alle potenzialità di incisione dell’economia circolare sulla vita delle città.
La seconda citazione è relativa al passaggio alla finanza sostenibile, alla quale viene dedicata un’ampia parte del documento finale e in cui viene ribadita la consapevolezza che i diversi istituti - dagli Stati Uniti alle banche nazionali, agli enti sovranazionali e al ruolo dei privati - devono interagire attraverso un “mix di politiche che dovrebbero includere investimenti in infrastrutture sostenibili e tecnologie innovative che promuovono decarbonizzazione ed economia circolare e un’ampia gamma di meccanismi fiscali, di mercato e normativi per sostenere le transizioni verso l’energia pulita, l’uso di meccanismi di tariffazione del carbonio e incentivi, fornendo al contempo un sostegno mirato ai più poveri e ai più vulnerabili”.
Nel “Patto per il clima” del documento della COP26, sul tema dell’economia circolare, invece, non si affronta il tema in maniera esplicita in nessun punto del documento: nessun riferimento neanche alla questione - attualissima - del prezzo e del sovrasfruttamento delle materie prime. Evidentemente la preoccupazione di come ricostruire un’economia diversa, mentre si dovrebbero teoricamente smantellare i settori dell’industria fossile, non è nella lista delle priorità.
Durante la COP26 è stato però presentato l’IPCC report delle Nazioni Unite sugli scenari che ci aspettano con le attuali politiche ambientali. Secondo lo studio, se continueremo così lo scenario peggiore a fine secolo si aggira intorno a un aumento fino a 5°C della temperatura. La soglia del 2,5°C potrebbe essere raggiunta già nel 2050. Tradotto in termini semplici, dovremo aspettarci migrazioni di massa, catastrofi ambientali, innalzamento vertiginoso dei livelli del mare e nuovi conflitti.
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