Articoli
Tutti gli aggiornamenti, gli approfondimenti e i casi pratici analizzati e realizzati dai nostri esperti in materia agricola, fiscale, economica e del lavoro.
La legge n. 242/2016 ha concesso, per la prima volta, la possibilità agli agricoltori italiani di produrre legalmente la cannabis, nel rispetto di tutta una serie di requisiti previsti dalla normativa.
Dopo la frenata del Ministero della Salute, con il parere fornito nel giugno 2018, ora anche la Cassazione dà un importante colpo di piccone nei confronti dei produttori di cannabis light: secondo quanto affermato con la sentenza n. 10809/2019, infatti, se i prodotti venduti hanno un livello di THC superiore allo 0,6%, tali vendite configurano il reato di vendita di sostanze stupefacenti.
Ai fini dell’imputabilità, infatti, la causa di non punibilità di colui che svolge l’attività di produzione, anche se i prodotti superano la richiamata soglia di THC dello 0,6%, non può essere applicata analogicamente nel caso della vendita.
Tale principio, però, è suscettibile di creare un vero e proprio terremoto nel settore.
La questione controversa ha avuto origine da una richiesta di sequestro preventivo relativo ad alcune confezioni di cannabis light che, a seguito di alcuni controlli, evidenziavano un livello di THC superiore alla soglia legale dello 0,6%.
Sulla base di tali controlli, due erano le questioni giuridiche che rimanevano aperte e su cui i tribunali erano stati chiamati a pronunciarsi: la prima riguardava la legittimità del sequestro operato e l’eventuale necessità di confermarlo; la seconda, forse di maggiore sostanza, riguardava i profili di responsabilità penale da parte dei produttori/venditori.
Va ricordato, infatti, che, sulla base di quanto previsto dall’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla Tabella I prevista dall'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.
La difesa sosteneva che nessun addebito poteva essere mosso nei confronti degli imputati, in quanto se la produzione di canapa con un livello di THC superiore al limite legale è considerata non punibile dalla L. 242/2016, non può logicamente affermarsi che la commercializzazione dello stesso prodotto, senza mutazioni delle sue caratteristiche organolettiche, possa qualificarsi come illegale.
In senso diametralmente opposto, invece, si è espressa la Corte di Cassazione, la quale ha affermato che la vendita di prodotti a base di canapa, con un valore di THC superiore alle soglie di tolleranza sopra richiamate, deve ritenersi idonea a configurare il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990.
Infatti, secondo quanto sostenuto dai giudici di legittimità, la L. n. 242/2016 introduce una serie di parametri (l’utilizzo di tipologie di canapa autorizzate dalla legge, i prodotti finali per cui viene utilizzata la canapa) sulla base di cui, una volta rispettati, l’agricoltore viene escluso da punibilità nel caso di una produzione contenente un livello di THC superiore rispetto al limite legale, fissato dalla legge allo 0,2%.
Inoltre, nessuna responsabilità diretta è addebitata al produttore anche quando i prodotti abbiano un valore di THC superiore alla soglia di tolleranza (0,6%), fatta salva la facoltà dell’autorità giudiziaria di disporre il sequestro e la distruzione del prodotto.
Tale esclusione trova fondamento nell’impossibilità da parte del produttore agricolo di controllare in maniera diretta i valori di principio attivo contenuto all’interno di piante ed infiorescenze, generando così una paritetica impossibilità di muovere addebiti a quest’ultimo in caso di mancata conformità dei prodotti alle previsioni di legge.
La disciplina della richiamata legge 242/2016, però, secondo la Cassazione, deve ritenersi una disciplina speciale, il che impone una lettura restrittiva dei principi contenuti e l’impossibilità di applicare analogicamente quanto previsto per la produzione della canapa alla fattispecie della commercializzazione della stessa.
Se, infatti, non è ascrivibile al produttore il fatto che la pianta sia stata nata con un valore di THC troppo elevato rispetto agli standard di legge, lo stesso non si può dire per il venditore di tali prodotti, il quale deve accertarsi di non vendere prodotti idonei a creare effetti stupefacenti e psicotropi.
Pertanto, la vendita di prodotti con valore di THC superiore allo 0,6% configura la fattispecie di reato delineata dal richiamato art. 73 del D.P.R. 300/1990. Inoltre, laddove la canapa possieda un livello di THC al di sopra della soglia predetta, sia in caso di vendita che di coltivazione, sarà sempre possibile disporre il sequestro dei prodotti.
Quello analizzato dalla Corte di Cassazione non è il primo caso di aziende e produttori di canapa che vedono muoversi contestazioni e ricevere sequestri dei propri prodotti, a causa del livello di THC troppo elevato degli stessi.
Va evidenziato che, sebbene la volontà di esercitare un forte controllo volto alla prevenzione del diffondersi di prodotti e sostanze psicotrope, nella realtà dei fatti richiedere un controllo pianta per pianta del valore del tetraidrocannabinolo rappresenta una richiesta diabolica nei confronti delle aziende di produzione, ma anche dei venditori (se diversi), che non hanno strumenti e risorse sufficienti.
Alla luce di tali considerazioni, quindi, riteniamo estremamente penalizzante addossare ai venditori, spesso ultimi tasselli di filiere cortissime, una responsabilità di tipo penale nel caso di cessioni di prodotti aventi valori di THC oltre norma.
La speranza, quindi, è quella di assistere ad un cambio di orientamento da parte della Cassazione, prima di innescare un circolo vizioso suscettibile di mettere un ulteriore ostacolo sul cammino dei produttori del settore della canapa.