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Tra le caratteristiche tipiche dell’imprenditore agricolo, così come descritto dall’art. 2135 c.c., c’è senza dubbio l’impossibilità di assoggettare tale individuo alla procedura di fallimento individuata dal R.D. n. 267/1942.
L’art. 1 del richiamato regio decreto prevede che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”. Dal novero di tali soggetti, quindi, risulta chiaramente esclusa l’intera categoria degli imprenditori agricoli: in caso di crisi aziendale, essi possono accedere alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento prevista dalla L. 3/2012 per i soggetti non fallibili.
Tuttavia, al di là di un disposto normativo tanto chiaro quanto risalente, la giurisprudenza sta mettendo sempre più in dubbio il principio di infallibilità dell’imprenditore agricolo.
A ben pensarci, infatti, nel 1942 l’azienda agricola svolgeva un’attività incentrata sulla lavorazione della terra e sulla produzione di prodotti agricoli, le quali erano fortemente vincolate agli eventi meteorologici e ad eventuali calamità che, in poche ore, potevano distruggere un’intera campagna. L’esclusione dal fallimento aveva proprio la finalità di non esporre l’agricoltore alle significative ed, allora, infamanti conseguenze della procedura concorsuale a causa di una o due annate agrarie infauste.
Oggi, invece, molte cose sono cambiate. Con la revisione dell’articolo 2135 del codice civile, le aziende agricole non svolgono più solo le ordinarie attività di allevamento e coltivazione, ma possono trasformare e manipolare i propri prodotti, venderli direttamente, produrre energia e così via. Si tratta di un ventaglio di opportunità che rendono l’azienda indubbiamente più indipendente dalla quantità dei frutti raccolti o dei capi allevati rispetto a quanto avveniva mezzo secolo fa.
Alla luce delle richiamate nuove tendenze evolutive, occorre però ripartire da un punto fermo: la normativa esclude chiaramente la fallibilità dell’azienda agricola.
Tale affermazione, per quanto banale, ha orientato e continua ad orientare la giurisprudenza della Corte di Cassazione: la sentenza n. 24995/2010 ha affermato che la maggiore ampiezza delle attività esercitabili dall’imprenditore agricolo può far sorgere dubbi circa l’impossibilità di assoggettarlo a fallimento, ma l’assenza di interventi da parte del legislatore in senso contrario depone in favore alla sua infallibilità.
Anche recentemente i giudici di legittimità si sono pronunciati sul tema del fallimento della società agricola: con la sent. n. 17343/2017, la Cassazione ha confermato che non può fallire il soggetto agricolo che, pur avendo come oggetto sociale anche attività commerciali, non le svolga concretamente.
Il caso era quello di una SRL agricola, che nell’oggetto sociale aveva anche l’attività di compravendita immobiliare, pur non svolgendo di fatto tale attività. Come affermato dagli Ermellini, al fine di giungere ad una corretta conclusione, è necessario operare un’attenta analisi del fatto concreto e delle attività effettivamente svolte. Tale principio era stato sostenuto anche nella sentenza n. 9788/2016.
Concludendo, quindi, il principio per cui l’imprenditore agricolo non può fallire sembra al momento in salvo. Sempre più spesso, però, esso viene messo sotto la lente degli operatori e fatto oggetto di contenzioso. Tenendo conto anche delle tendenze evolutive della categoria “aziende agricole”, non pare impossibile che, in futuro prossimo, le cose possano cambiare.