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Gli accertamenti effettuati ai fini delle imposte dirette sulla sola base di quotazioni, indici o valori d’ufficio non possono essere considerati legittimi, a meno che non sia data anche prova delle ragioni specifiche della contestazione.
Tale orientamento sembra ormai piuttosto consolidato nella giurisprudenza della Cassazione, la quale si è espressa in tal senso nell’ambito di un paio di recenti pronunce, ribadendo alcuni importanti concetti.
Tra queste va evidenziata l’ordinanza n. 12269/2018, con cui i giudici di legittimità si sono pronunciati sul caso di una società immobiliare, la quale aveva posto in essere alcune cessioni di unità immobiliari. Successivamente, l’Agenzia rettificava il valore di vendita dichiarato, motivando tale contestazione sulla base di un significativo scostamento rispetto ai valori OMI.
Chiamata a pronunciarsi sulla questione, la Cassazione ha annullato l’avviso dell’Agenzia, sostenendo che tali parametri non possono essere utilizzati come presunzione semplice, in quanto privi di quei caratteri di gravità, precisione e concordanza necessari a fondare un accertamento. Secondo la Suprema Corte, infatti, lo scostamento dei valori OMI dai valori di vendita dichiarati, non è elemento sufficiente per giustificare l’accertamento se non vengono confermati anche da ulteriori indizi.
Alle stesse conclusioni è arrivata la Cassazione anche nella recentissima ordinanza n. 14117/2018, dove si è affermato che i valori OMI “non costituiscono fonte tipica di prova ma strumento di ausilio ed indirizzo per l'esercizio della potestà di valutazione estimativa, sicché, quali nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, utilizzabili dal giudice ai sensi dell'art. 115 c.p.c., comma 2, sono idonee solamente a "condurre ad indicazioni di valori di larga massima".
Peraltro, va evidenziato che già nel 2010, con la circolare 18/2010, l’Agenzia aveva precisato che lo scostamento dai valori OMI non è sufficiente a sorreggere la pretesa impositiva, richiedendo il supporto di ulteriori elementi probatori convergenti.
Caso diverso, ma conclusioni simili sono quelle a cui è giunta la Cassazione con la ordinanza n. 11080/2018.
Oggetto di controversia era il maggior reddito contestato ad una società, la quale aveva costruito alcuni immobili e li aveva venduti ad un valore inferiore rispetto a quello individuato dall’Ufficio Tecnico Erariale. Tale scostamento aveva dato causa ad un accertamento dell’Agenzia che, in base a tali valori di stima, procedeva alla relativa contestazione per i maggiori importi non dichiarati.
Anche su questo caso, la Cassazione ha affermato che "in tema di accertamenti tributari, qualora la rettifica del valore di un immobile si fondi sulla stima dell'UTE o di altro ufficio tecnico, che ha il valore di una semplice perizia di parte, il giudice investito della relativa impugnazione, pur non potendo ritenere tale valutazione inattendibile solo perché proveniente da un'articolazione dell'Amministrazione finanziaria, non può considerarla di per sé sufficiente a supportare l'atto impositivo, dovendo verificare la sua idoneità a superare le contestazioni dell'interessato ed a fornire la prova dei più alti valori pretesi ed essendo, altresì, tenuto ad esplicitare le ragioni del proprio convincimento".
Concludendo, quindi, pur in casi tra loro differenti, il messaggio della Cassazione sembra piuttosto chiaro: senza specifiche prove, il mero rimando a indici o valori generici non può essere considerato elemento sufficiente per giustificare la pretesa di una maggiore tassazione avanzata da parte dell’Agenzia.