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A distanza di appena due mesi dal suo restyling, l’indennizzo monetario in caso di licenziamento ingiustificato introdotto dal “Jobs Act” per le assunzioni successive al 6 marzo 2015, è stato definito illegittimo dalla Corte Costituzionale.
A seguito del perdurare della crisi economica, al fine di stimolare le assunzioni, il legislatore ha ritenuto introdurre una serie di misure volte a semplificare e rendere più elastico il rapporto di lavoro.
Tra le misure adottate, oggetto anche di forti polemiche, vi è l’introduzione di un criterio esclusivamente economico a tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati. Tale disposizione, prevista dall’art. 3 del D. Lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (Jobs Act), dispone che a fronte di un licenziamento per il quale non sussista un giustificato motivo o giusta causa, il giudice dichiari estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, condannando il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio in azienda, con un minimo di quattro ed un massimo di ventiquattro.
Il decreto dignità non ha modificato l’impostazione della norma, ma ha semplicemente modificato due parametri del contratto a tutele crescenti. Infatti, il numero minimo di mensilità oggetto dell’indennizzo è stato portato da quatto a sei e il limite massimo dell’indennizzo è stato portato da ventiquattro a trentasei mensilità.
Inoltre, il nuovo regime introdotto nel 2015 distingue i lavoratori in due categorie alle quali, in caso di licenziamento ingiustificato (salvo il caso di licenziamento nullo o inefficace), sono riconosciuti i seguenti diritti:
Il tribunale del lavoro di Roma, lo scorso mese di luglio, ha sollevato il dubbio sulla legittimità del metodo adottato per la determinazione dell’indennità, giudicando iniquo l’indennizzo per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, definendolo, inoltre, contrario al principio di ragionevolezza e uguaglianza, dato che impone l’applicazione di criteri diversi nei confronti dei lavoratori assunti prima di tale data.
Il tribunale romano ravvisava anche l’inidoneità della definizione economica dell’indennità risarcitoria in quanto determinabile esclusivamente tramite un procedimento “matematico”. Infatti, la norma non consente al giudice di valutare nel concreto il pregiudizio sofferto dal lavoratore e neppure di entrare nel merito se il licenziamento sia fondato esclusivamente su comportamento opportunista del datore di lavoro.
La Corte Costituzionale, nella decisione del 26 settembre 2018, ha ritenuto troppo rigido il sistema di definizione degli indennizzi. Secondo la Corte, stabilire un’indennità crescente a fronte di un licenziamento ingiustificato, in funzione della sola anzianità di servizio del lavoratore, è contrario ai principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta anche con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
La Corte non ha però censurato il secondo comma dell’art. 3 del Decreto che stabilisce l’indennità risarcitoria per il periodo di sospensione dal lavoro del lavoratore nei casi in cui il giudice, a fronte del disconoscimento di un licenziamento per giustificato motivo o giusta causa, ne disponga la reintegrazione.
La sentenza, sarà depositata nelle prossime settimane, e solo allora si potrà comprendere, in base alle motivazioni addotte, la reale portata della declaratoria di incostituzionalità.
La norma, sorta per dare elasticità e, soprattutto, certezza ai datori di lavoro, rischia di prendere una direzione completamente opposta, trasferendo in capo ai giudici il compito di valutare caso per caso il valore degli indennizzi.