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Sono due le proposte di legge sul salario minimo che, in Parlamento, stanno portando avanti l’idea di introdurre una sorta di soglia minima salariale nazionale.
Da un lato, è vero che nel nostro Paese esiste una molteplicità di contratti che vanno da quelli quadro nazionali a quelli aziendali.
Infatti, in tema di lavoro, l’attuale sistema contrattuale consente di definire degli accordi anche a livello locale o aziendale al fine di trovare soluzioni per soddisfare particolari esigenze organizzative o produttive delle aziende tutelando al contempo gli interessi dei lavoratori con l’inserimento di incentivi, premi di produzione, premi-obiettivo, ecc.
La contrattazione a diversi livelli, però, è stata sempre vista come un sistema in grado di adattare lo strumento contrattuale alle specifiche esigenze di aziende e contesti territoriali di natura socio-economica.
Secondo l’INPS, in questa giungla di contratti, circa il 22% dei lavoratori dipendenti delle aziende private italiane percepisce uno stipendio lordo inferiore a 9 euro l’ora.
Tale valore sale al 38% se si considerano le aziende del settore agricolo.
Fissare un salario minimo a 9 euro lordi, secondo l’ISTAT, porterebbe ad un aggravio di costi per le aziende private italiane di oltre 3 miliardi di euro e interesserebbe circa 3 milioni di lavoratori.
Tali valori sono stati stimati nell’ipotesi in cui si fissi una soglia di 9 euro lordi, pertanto se si dovesse ragionare di un importo netto, per il lavoratore i valori sarebbero ben altri.
I lavoratori che maggiormente beneficerebbero di questa disposizione sarebbero quelli che oggi hanno gli stipendi più bassi (neoassunti, apprendisti, le donne, ecc.) e le aree maggiormente colpite sarebbero quelle del sud Italia e quelle meno sviluppate dove, da sempre, i salari risultano più bassi rispetto al resto del Paese.
L’introduzione di un salario minimo parrebbe essere in contrasto con le misure in materia di politica del lavoro che le diverse amministrazioni hanno perseguito negli anni. Infatti, i salari d’ingresso, gli sgravi contributivi per i neoassunti o per determinate categorie di lavoratori sono state alcune tra le più importanti misure adottate dalle politiche del lavoro degli ultimi governi, misure che hanno riscosso ampi consensi. Pertanto, quella del salario minimo, sarebbe una misura in decisa controtendenza.
Inoltre, in questo preciso periodo storico, in cui sembra riaffacciarsi con decisione una fase di ristagno dell’economia, porre in essere misure che portano un aggravio di costi alle imprese non sembra propriamente una delle priorità da perseguire. Ciò vale soprattutto per il settore agricolo, che da anni vede una prolungata situazione di crisi e che necessiterebbe, quantomeno, di una stabilizzazione dei costi, se non una loro riduzione, per poter produrre e fornire prodotti di qualità a prezzi concorrenziali come richiesto dal mercato.
Sono 22 su 28 gli Stati europei che hanno adottato una sorta di soglia minima di reddito salariale. L’ultimo Paese ad introdurre questo sistema è stata la Germania dove non si è registrato un calo occupazionale, ma le ore dei lavoratori sotto soglia si sono sensibilmente ridotte e le imprese hanno “alleggerito” il costo del lavoro eliminando o riducendo ad esempio gli scatti di anzianità, cosicché parte del maggior costo è stato di fatto recuperato con un taglio orizzontale che ha interessato tutti i lavoratori.
Quella del salario minimo sembra una strada senza ritorno che anche l’INPS segnala come un’esigenza avvertita da una larga fascia di lavoratori.
Quello che preoccupa sono i tempi ed i modi con cui tale misura sarà eventualmente introdotta, dato che negli altri Paesi comunitari, prima della definizione del salario minimo per legge, si sono fatti studi, analisi e sono stati presi provvedimenti per accompagnarne l’introduzione.