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Se il lavoratore subordinato denuncia penalmente il proprio datore, tale atto non è sufficiente per essere qualificato come giusta causa di licenziamento disciplinare. Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22375/2017.
Il caso oggetto di controversia riguardava una lavoratrice che era stata licenziata dal proprio datore dopo aver sporto una denuncia nei confronti del legale rappresentante dell’azienda. Essa aveva accusato il proprio titolare di averle inflitto maltrattamenti e lesioni personali in occasione del tentativo di consegna di un provvedimento disciplinare.
Chiamata a pronunciarsi sul punto, la Corte d’Appello aveva sostenuto la legittimità del licenziamento: pur in assenza di un danno patrimoniale o di immagine, infatti, i giudici avevano affermato che la condotta della lavoratrice aveva superato i limiti di continenza formale e sostanziale connessi al diritto di critica, anche perché le accuse si erano successivamente rivelate infondate.
La Cassazione, invece, ha riformato tale pronuncia, facendo proprio un orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui l’obbligo di fedeltà previsto dall’art. 2105 c.c. in capo al lavoratore non può essere interpretato come una sorta di “dovere di omertà”, inteso come l’astensione dal denunciare eventuali fatti illeciti.
Tale interpretazione comporterebbe che il potere di denuncia attribuito dall’art. 133 del codice penale potrebbe essere fonte di responsabilità disciplinare a carico del lavoratore e causa di licenziamento.
Pertanto, i giudici di legittimità hanno affermato che la denuncia penale presentata dal lavoratore nei confronti del datore non può essere giusta causa di licenziamento, anche se l’eventuale procedimento si concluda con pronuncia di assoluzione o con l’archiviazione del caso.
Diversamente, deve ritenersi corretto l’avvio della procedura di licenziamento nel caso in cui venga dimostrato l’intento calunnioso del lavoratore, inteso come “consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi”.
In conclusione, poi, la Cassazione ha sottolineato come la Corte d’Appello non si sia (erroneamente) occupata del profilo della proporzionalità della sanzione espulsiva. Ciò era da ritenersi necessario, in quanto il CCNL di settore prevedeva la possibilità di procedere al licenziamento ai soli casi in cui il datore abbia subito un serio, concreto ed effettivo danno patrimoniale dall’inadempimento del lavoratore.