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In ambito lavorativo, purtroppo, non sono rari i casi denunciati di abusi e vessazioni che possono essere qualificati come mobbing. Talvolta, però, i lavoratori definiscono mobbing anche provvedimenti disciplinari irrogati dai datori e, in tal caso, il terreno si fa scivoloso.
Per operare delle corrette valutazioni è importante partire dalla definizione di mobbing, fornita dalla giurisprudenza di legittimità con le sentenze della Cassazione n. 3785/2009 e 17698/2014. Quattro sono gli indicatori di cui occorre tenere conto affinché una condotta possa essere qualificata come mobbing:
1 – devono verificarsi una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che con intento vessatorio siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
2 – tali condotte devono comportare un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
3 – deve esistere uno stretto rapporto causa-effetto tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
4 – deve sussistere l'elemento soggettivo, ossia l'intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.
Laddove un soggetto contesti al proprio datore di aver realizzato condotte riconducibili al mobbing, è importante ricordare che l’onere della prova è posto in capo al lavoratore, il quale deve dimostrare sia i comportamenti lesivi che, decisamente più difficile, lo specifico scopo persecutorio.
In merito alle irrogazione delle sanzioni disciplinari è importante che il datore di lavoro si muova con grande cautela onde evitare l’insorgenza di eventuali problemi.
Un elemento che viene generalmente valutato con attenzione dal giudice è relativo al fatto o all’evento che ha scatenato l’intervento disciplinare. La concreta sussistenza di un fatto oggettivamente sanzionabile può infatti essere sufficiente ad escludere la pretestuosità del provvedimento, disattivando quindi ogni possibile contestazione di mobbing.
Anche laddove fosse riscontrabile un abuso nell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore, è importante precisare che non è automatico che sia verificata la fattispecie di mobbing, in quanto occorrono altri e gravi comportamenti censurabili.
Ad esempio, la recente sentenza n. 30606/2017 della Cassazione ha deciso che l’azienda dovesse essere condannata per mobbing in quanto, oltre ad aver comminato al lavoratore irregolarmente diversi provvedimenti disciplinari, aveva posto in essere anche tutta una serie di condotte (l’isolamento, l’ingiustificato cambio di reparto) volte ad escluderlo dalla vita aziendale.
Un altro parametro spesso valutato in caso di controversia è quello legato alla ripetitività dei provvedimenti disciplinari: una martellante sequela di sanzioni può essere valutata come pretestuosa e mobbizzante.
Il tema è tanto caldo quanto delicato, in quanto sia le pretestuose contestazioni che le condotte realmente abusive stanno moltiplicandosi in un mondo del lavoro in cui, oggi giorno, occorre muoversi con sempre maggiore cautela.