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Il nuovo Regolamento UE sull’agricoltura biologica, pubblicato lo scorso 14 giugno, prevede deroghe che possono minare la fiducia dei consumatori ed al contempo creare problemi in termini di competitività alle realtà produttive più rigorose come quelle italiane.
È un fatto certamente positivo che l’agricoltura biologica sia in forte ascesa in termini di produzione e di consumi.
Infatti, nel periodo 2009-2016 le superfici agricole destinate alle produzioni biologiche sono passate da poco di 1,1 mln di ettari a circa 1,8 mln di ettari (+60%), mentre i consumi di prodotti BIO hanno registrato incrementi annuali anche a due cifre con un picco nel 2015 di oltre il 20%.
Attraverso la grande distribuzione transita circa il 55% del consumo delle produzioni BIO.
In questo contesto si inserisce l’introduzione, a partire dal 1° gennaio 2021, del nuovo regolamento Ue 2018/848 che, a differenza degli auspici dei produttori italiani, contiene misure volte a mitigare interessi non sempre in linea con la filosofia più rigorosa del “produrre e mangiare naturale”.
Viene eliminato l’attuale concetto di equivalenza, che consentiva l’importazione di prodotti ottenuti adottando disciplinari di produzione affini a quelli europei, che tenessero in considerazione le differenze di carattere climatico, pedologico o ambientale, ammettendo l’utilizzo di prodotti fitosanitari o tecniche di coltivazione non consentite ai produttori europei. Ora, con l’adozione del concetto di conformità, gli standard di produzione dei paesi terzi saranno omologati a quelli europei.
Ciò, oltre a garantire una maggiore sicurezza alimentare in favore dei consumatori, nel lungo periodo potrà fare in modo che vi sia una leale competitività tra i produttori, valorizzando le produzioni che meglio si adattano al territorio per qualità, rese e risparmio di risorse.
Però, i produttori dovranno ancora attendere, dato che su questa nuova prescrizione entrano in campo le deroghe. Infatti, viene concesso ai paesi produttori un periodo transitorio entro il quale dovranno adeguare i propri enti certificatori. Conseguentemente, l’applicazione generalizzata di tale norma avverrà solo a partire dall’anno 2025.
La compatibilità delle produzioni di Paesi terzi potrà essere riconosciuta attraverso specifici accordi bilaterali che prevedano il riconoscimento degli standard produttivi, al fine di agevolare gli scambi commerciali.
Il nuovo regolamento ammette l’introduzione delle certificazioni di gruppo, al fine di mitigare i costi delle certificazioni per i piccoli produttori.
Tale metodica, già adottata nei paesi in via di sviluppo, è stata oggetto di critiche in quanto, se non ben governata, potrebbe generare “aree grigie” di produzione, difficilmente controllabili.
Per accedere alla certificazione di gruppo sono previsti dei limiti dimensionali ed economici.
I limiti dimensionali sono distinti in tre tipologie a seconda dei metodi di coltivazione:
I parametri economici risultano molto stringenti. Tra i parametri economici citiamo il fatturato massimo consentito che prevede un limite di soli 25.000 Euro.
La scarsità di materiale per la propagazione con certificazione biologica ha permesso l’utilizzo diffuso di materiale non certificato.
Le deroghe all’utilizzo di materiale non certificato andranno progressivamente eliminate entro il 2035. Ogni stato dovrà istituire un database contenente l’intera lista del materiale riproduttivo biologico presente.
Il nuovo regolamento prevede la possibilità di verifiche biennali per quelle aziende che avranno rispettato tutti gli standard di produzione nel triennio precedente.
Tale misura, se ben impostata, potrebbe portare a delle economie per le imprese, attualmente soggette a controlli annuali, anche se sul piano burocratico non dovrebbero riscontrarsi differenze sostanziali.
Per quanto riguarda l’Italia, il DL n. 20 del 23 febbraio 2018 ha previsto controlli annuali obbligatori, andando in una direzione opposta agli orientamenti europei.
La coltivazione biologica prevede l’utilizzo del suolo, ciò è quanto prevede la regolamentazione. L’assenza di una normativa unitaria ha permesso in questi anni orientamenti disomogenei nei diversi paesi europei.
I paesi Nord Europei, dove tali metodiche di coltivazione sono ampiamente diffuse, hanno ottenuto una deroga di 10 anni che consentirà a Danimarca, Svezia e Finlandia di produrre BIO senza l’utilizzo del suolo.
I paesi nord europei guidati da Germania, Olanda non hanno permesso la definizione di un limite massimo per i residui di agro-farmaci derivanti da contaminazioni accidentali.
In Italia, in base al DM 309/2011, tale limite è stato fissato a 0,01 mg/kg. Si tratta di un limite estremamente rigoroso, che potrà essere mantenuto purché non interferisca con la circolazione di prodotti comunitari che non lo rispetteranno.
Ciò, se da un lato pone il prodotto italiano in una condizione di rilievo rispetto alle altre produzioni per la maggior tutela del consumatore, allo stesso modo non consente una concorrenza paritetica tra i produttori italiani e quelli degli altri paesi.
Tale aspetto non è di poco conto, in quanto permetterà alla grande distribuzione di rifornirsi degli stessi prodotti BIO al miglior prezzo, mettendo in competizione i produttori italiani con quelli esteri non soggetti agli stessi standard di “salubrità”.
Per certi aspetti il nuovo regolamento è deludente, in quanto avrebbe dovuto privilegiare la tutela della salute del consumatore, le produzioni di qualità e favorire la competitività tra i paesi produttori della comunità europea, oltre ad arginare la concorrenza sleale dei paesi extraeuropei.
Solo l’ultimo aspetto, relativo alla regolamentazioni delle importazioni di prodotti extraeuropei, appare sufficientemente delineato.
Per il resto permangono criticità che devono fare riflettere il mondo agricolo italiano. Il settore primario dedito alle produzioni BIO deve a questo punto decidere se puntare rigorosamente sul mantenimento dei propri elevati standard di qualità, oppure, se posizionarsi allo stesso livello degli altri produttori europei, al fine di essere economicamente competitivo.