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Negli ultimi anni l’attenzione a livello normativo per la birra è andata via via crescendo, culminando nel 2016 con la definizione di birra artigianale.
Ancora prima, però, nel quasi totale silenzio, era avvenuta una piccola grande rivoluzione per l’universo brassicolo italiano: con il Decreto Ministeriale 212/2010, infatti, era stata segnata una svolta importante nel quadro normativo agricolo, riconoscendo la birra come prodotto agricolo a tutti gli effetti ed il birrificio agricolo come azienda integrata nella produzione e nella vendita diretta di birra agricola.
La tecnica di produzione della birra non ha subito sostanziali variazioni nel corso dei secoli, pur essendo ovviamente mutate le attrezzature, fattesi sempre più tecnologiche e attente agli aspetti sanitari, ma tempi e processi per la realizzazione di birra casalinga sono molto simili a quelli impiegati in una produzione professionale. Il prodotto finito “birra”, infatti, necessita di varie fasi di preparazione del mosto: esso si compone di elementi essenziali come l’acqua, il malto d’orzo, il luppolo, lievito e zucchero.
La combinazione di tali elementi, le dosi utilizzate e gli svariati aromi che è possibile integrare permettono l’ottenimento di molteplici tipologie di birre. In generale, comunque, la preparazione della birra può essere riassunta nelle seguenti fasi:
Come anticipato, oltre alla birra artigianale, con il D.M. 212/2010 è stata introdotta anche la categoria delle cosiddette “birre agricole”, tramite cui la produzione di malto e birra è stata inserita tra le attività che possono essere qualificate come attività connesse ai fini delle imposte sui redditi.
Tuttavia, affinché la birra possa essere considerata agricola, essa deve avere determinate caratteristiche, tra cui quella di essere prodotta dallo stesso agricoltore che produce l’orzo. Vi sono poi diversi aspetti critici su cui focalizzare l’attenzione, come la prevalenza del proprio prodotto rispetto a quello acquistato da terzi e la maltazione dell’orzo. Per poter rimanere in regime agricolo, infatti, gli agricoltori devono produrre birra agricola, ossia con un percentuale di materia prima prodotta in proprio prevalente rispetto al prodotto acquistato da terzi.
È questo il tema della prevalenza: al fine di poter far rientrare l’intero reddito prodotto nell’ambito dell’art. 32 del TUIR, è sempre necessario che la birra sia ottenuta utilizzando in misura prevalente prodotti derivanti dall’attività agricola principale. Si dovrà quindi procedere al confronto tra il valore del malto d’orzo ed il valore del luppolo (i due ingredienti fondamentali da tenere in considerazione visto il costo non rilevante dell’acqua e la complementarietà degli altri elementi quali zucchero e lievito). Da tale considerazione nascono le criticità: il problema principale consiste nel fatto che, mentre l’orzo viene normalmente prodotto dalle aziende agricole, ciò non si può dire per il luppolo che generalmente non viene coltivato e conseguentemente è sempre acquistato da terzi. Il secondo nodo spinoso è legato alla maltazione dell’orzo prodotto: pochi produttori, infatti, possono permettersi di costruire una malteria, per cui, per ovviare al problema derivante dal fare maltare il proprio orzo a terzi (con conseguente contaminazione con orzo di altri produttori), molti hanno iniziato a costituire gruppi o consorzi. In questo modo, tutto l’orzo che producono all’interno delle loro aziende finisce nella malteria del consorzio e subisce il processo di maltazione, per poi essere restituito al proprietario. Anche in tale caso però, a meno che un produttore non conferisca importanti quantità di orzo, ogni birrificio non utilizzerà esclusivamente il suo malto bensì il malto prodotto dall’intero consorzio.
Ogni dubbio sarebbe fugato se i produttori nazionali coltivassero direttamente anche il luppolo: a tal fine per incentivarne la produzione, l’art. 36 della L. 154/2016 aveva imposto al MIPAAF di promuovere il miglioramento delle condizioni di produzione, trasformazione e commercializzazione del luppolo e dei suoi derivati nel nostro paese, tramite il finanziamento di progetti di ricerca e sviluppo per la produzione e per i processi di prima trasformazione del luppolo, per la ricostituzione del patrimonio genetico del luppolo e per l’individuazione di corretti processi di meccanizzazione.
Dal punto di vista fiscale, sulla produzione di birra gravano anche le accise, ovvero un tributo indiretto che colpisce singole produzioni e consumi e che il produttore è tenuto a corrispondere all’Erario, rivalendosi poi sul consumatore finale. Tale sistema è comunque penalizzante poiché anche i microbirrifici sono obbligati a pagare sulla base della birra prodotta e non su quella venduta.
Negli ultimi anni, tuttavia, il legislatore è intervenuto svariate volte per ridurre tale aggravio fiscale, da ultimo con la Legge n. 145/2018 ovvero la Legge di Bilancio 2019.
In ultimo, si ricorda che ai fini IVA, la birra non è uno dei prodotti compresi nella prima parte della tabella A allegata al D.P.R. n. 633/1972, pertanto alla vendita della birra non può applicarsi il regime speciale IVA (art. 34, c. 1, D.P.R. n. 633/1972).