Articoli
Tutti gli aggiornamenti, gli approfondimenti e i casi pratici analizzati e realizzati dai nostri esperti in materia agricola, fiscale, economica e del lavoro.
Nella giornata di ieri è stata pubblicata la Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 30475/2019 sulla commercializzazione di prodotti derivati dalla coltivazione della canapa sativa light la cui nota provvisoria, pubblicata lo scorso 30 maggio, aveva generato grande clamore.
I giudici hanno precisato che la normativa sulla liberalizzazione della c.d. cannabis light ed i limiti di THC previsti dalla Legge 242/2016 mirano esclusivamente ad incentivare questo tipo di coltivazione per uso agroalimentare ed a tutelare l’agricoltore rispetto alla norma generale in materia di stupefacenti.
La commercializzazione di infiorescenze ed altri sottoprodotti, diversi da quelli previsti dalla L. 242/2016, si configura come reato.
Nelle motivazioni i giudici hanno rilevato che i vigenti testi normativi da un lato vietano la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei relativi sottoprodotti, dall’altro ne promuovono la coltivazione per uso agroindustriale.
Ciò ha determinato diversi orientamenti in ambito giurisprudenziale che vedono, quale indirizzo maggioritario, quello in base al quale la L. n. 242/2016 non consente la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa (Cass. Sez. III n. 17387/2019, Cass. Sez. IV n. 57703/2018, n. 34332/2018, Cass. Sez. VI n. 56737/2018). Orientamenti minoritari ritengono che dalla liceità della coltivazione della cannabis sativa discenda anche la liceità della vendita dei relativi sottoprodotti purché con contenuto di THC inferiore, per alcuni giudici, a 0,6 per cento (Cass, Sez, VI n. 4920/18), per altri, a 0,2 per cento (Cass, Sez. III n. 4920/2018).
Nella sentenza appena depositata i giudici hanno ricostruito il quadro normativo indicando che quello che potrebbe apparire un contrasto tra diverse disposizioni, in realtà vede un quadro sostanzialmente armonico e coerente.
Il Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti indica tra le sostanze stupefacenti da sottoporre a vigilanza la cannabis e i prodotti da essa ottenuti, senza indicazione alcuna circa le diverse varietà e senza alcun riferimento ai limiti di THC.
L’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990 (T.U. Stupef.) indica che la coltivazione della canapa è vietata, ad eccezione di quella destinata alla produzione di fibre o altri usi industriali, consentiti dalla normativa della UE.
Tra l’altro, nel 2014, in sede di conversione del D.L. n. 36, l’indicazione tra le sostanze stupefacenti della “cannabis indica” è stata modificata, eliminando la qualità “indica”.
Ne consegue che l’intento del Legislatore fosse quello di considerare tra le sostanze stupefacenti la cannabis, indipendentemente dal tipo varietale. Pertanto, la coltivazione della cannabis e la vendita dei relativi sottoprodotti non è mai consentita, salvo le eccezioni per uso agroindustriale previste dall’art. 26.
La legge n. 242/2016 volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di alcune varietà di canapa, indica in maniera dettagliata le finalità ammesse, ossia per:
Nel contesto produttivo, l’imprenditore non commette comunque reato qualora, coltivando le varietà ammesse, emerga una concentrazione di THC superiore ai limiti di legge purché segua le prescrizioni previste dalla L. 242/2016.
Invece, la commercializzazione di prodotti diversi da quelli elencati nella norma del 2016 “integra il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n.309/1990, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016”.
In questo contesto, ovvero qualora fossero messi in commercio prodotti non ammessi, al fine di valutare se il fatto sia penalmente rilevante, occorrerà valutare concretamente l’offensività della condotta attraverso la verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto della cessione.