Cambiamenti climatici: la messa in sicurezza del nostro Paese richiede un approccio olistico

di Luciano Mattarelli, direttore responsabile

Sebbene vi siano correnti di pensiero che rinnegano il cambiamento del clima mondiale, di fatto, stiamo assistendo, nostro malgrado, ad eventi meteorologici sempre più estremi e con cadenze assolutamente inusuali.

Sul tema la comunità internazionale, da quasi trent’anni, si sta interrogando su come intervenire. Lo storico accordo internazionale di Kyoto con cui i principali paesi industrializzati prendevano impegni per la riduzione delle emissioni di alcuni gas ad effetto serra, responsabili del riscaldamento del pianeta risale all’11 dicembre 1997 ed è entrato in vigore nel lontano 2005.

Nel corso del tempo le dinamiche produttive sono mutate e molti degli obiettivi fissati dagli Stati aderenti sono stati in gran parte disattesi. L’Europa con il “Green Deal”, a partire dal 2019, ha avviato un percorso impegnando i Paesi aderenti a conseguire l'obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, rispettando gli impegni assunti nel quadro dell'accordo di Parigi (2015).

Lo sforzo richiesto per raggiungere gli obiettivi è enorme, specie per le imprese che si trovano a confrontarsi con concorrenti che non soggiacciono agli stessi vincoli e, pertanto, offrono i medesimi beni o servizi a condizioni più vantaggiose. Si tratta di un fardello che anche le imprese agricole sopportano, dovendo modificare le proprie logiche produttive e subendo l’aumento dei costi di beni e servizi. In questi mesi ci si sta interrogando se questa radicale iniziativa avviata motu proprio solo dalla UE non sia l’inizio di una irreversibile deindustrializzazione del nostro continente. Si tratta di tematiche complesse che gli Stati devono discutere e condividere, per cui dobbiamo confidare nella lungimiranza della classe politica europea.

Ma cosa possiamo fare a casa nostra?

Come dimostrano fenomeni quali alluvioni, siccità e ondate di calore, che sempre più spesso colpiscono diverse aree del nostro Paese, vi è la necessità urgente di un piano che vada a intervenire non solo in termini di ordinaria manutenzione ma anche con opere idrauliche adeguate alle necessità attuali dei territori. Esigenze che sono mutate anche per la progressiva cementificazione del nostro Bel Paese, dal malgoverno delle opere esistenti e dalla mancata attuazione delle nuove opere divenute necessarie.

Il consumo di suolo in Italia rappresenta un problema cronico e pericoloso per l'equilibrio idrogeologico e degli ecosistemi. Nonostante le misure di controllo del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), l'urbanizzazione e la cementificazione proseguono, con impatti negativi sui servizi ecosistemici e sul paesaggio. Il tema, storicamente legato alle esigenze economiche, ha avuto risonanza anche culturale e internazionale, con la Carta Europea del Suolo che sottolinea l'importanza della tutela di questa risorsa non rinnovabile.

Il consumo di suolo è collegato alla costruzione di nuovi edifici e all'espansione urbana, spesso a scapito di aree naturali o agricole. È necessario un approccio sostenibile che valorizzi la rigenerazione urbana e la riqualificazione del territorio, promuovendo un equilibrio tra sviluppo e tutela ambientale. A livello normativo, il contesto italiano ed europeo è frammentato e richiede una regolamentazione organica per affrontare la sfida con politiche efficaci e mirate alla sostenibilità. L'obiettivo di azzerare il consumo netto di suolo, previsto dall'Agenda ONU 2030 e richiesto dalla UE, sottolinea l'urgenza di interventi per preservare il territorio, attraverso l'economia circolare e la riqualificazione delle aree degradate.

In questo contesto occorre anche tener presente che il nostro Paese è caratterizzato dalla presenza di una notevole superficie collinare e montuosa (49% della superficie totale) pertanto, anche dal punto di vista idrogeologico, la buona gestione di questi territori è uno dei requisiti per contenere gli attuali fenomeni metereologici.

La montagna e la collina, salvo alcune rare eccezioni, continuano a spopolarsi con conseguente abbandono del territorio da parte di imprenditori agricoli, silvicoltori, allevatori e pastori. Queste figure, per secoli, hanno contribuito alla cura dei boschi, dei torrenti ed alla regimazione delle acque.

Grazie a interventi lungimiranti, l'Italia ha sviluppato (da oltre un secolo) uno dei sistemi più articolati di bacini idrici destinati sia alla produzione di energia che agli usi potabili, industriali ed irrigui. Tale sistema in parte abbandonato e, certamente, spesso mal governato, necessita di una nuova programmazione che ampli, ove possibile, la capacità dei bacini esistenti prevedendo nuovi sistemi di accumulo da utilizzare anche ai fini energetici. Serve un intervento strutturale che abbia anche la capacità di prevedere ogni opera necessaria, anche a valle, che possa valorizzare le risorse idriche di cui disponiamo ed evitare, o quantomeno ridurre, gli effetti del cambiamento climatico, comprese le esondazioni o gli allagamenti.

Si tratta di investimenti che, se ben studiati, possono non solo ripagarsi, ma incentivare anche una nuova economia più green con fattori di produzione economicamente vantaggiosi, quindi più competitiva. Serve quindi una visione di lungo periodo che indichi gli interventi prioritari a prescindere dagli interessi dei singoli o delle lobby.

In questo contesto occorre anche segnalare come il Legislatore, seppure con tempi non certo celeri, stia portando avanti un disegno di legge per il riconoscimento e la promozione delle zone montane[1]. Tra gli obiettivi della legge vi sono provvedimenti che incentivano le genti delle nostre montagne a non abbandonare i loro luoghi di origine, agevolando anche l’avvio di nuove iniziative e l’assunzione del personale. Alcune misure riguardano anche il settore agricolo includendo l'individuazione di linee guida per il recupero e l’utilizzazione razionale dei sistemi agrosilvopastorali montani, la certificazione delle foreste, la tutela e la conservazione degli ecosistemi. Tra le misure inserite nel disegno di legge ve ne sono alcune che prevedono la realizzazione di bacini idrici, l’ampliamento di quelli esistenti e la creazione di vasche di laminazione. Vi sono anche incentivi per gli investimenti effettuati dagli imprenditori agricoli di questi territori volti a migliorare gli aspetti ambientali. Inoltre, per consentire una migliore redditività alle imprese agricole montane, le amministrazioni locali potranno affidare loro la manutenzione e la sistemazione del territorio, inclusa la sentieristica, la sistemazione idraulica e forestale. Vengono anche istituiti appositi incentivi per il nuovo insediamento di giovani imprenditori.

Si tratta sicuramente di un intervento lodevole. Considerato anche il fatto che il Fondo per lo sviluppo delle montagne italiane è stato finanziato

  • per l’anno 2022 con 129,5 milioni di euro,
  • per l’anno 2023 con 209,5 milioni di euro,
  • per l’anno 2024, a seguito della spending review, con 195,7 milioni di euro,

a cui si aggiungono poco meno di duecento milioni di euro l’anno per il 2025 ed il 2026, sarebbe auspicabile una progettazione complessiva che non disperda queste risorse, seppur contenute, ma che si integri con progetti di più ampio respiro, portando avanti un progetto comune volto sia al ripristino che alla messa in sicurezza dei territori e che al contempo produca effetti pianificabili per le attività economiche e le comunità montane dei domani.

L’urgenza di mettere in sicurezza l’intero Paese non può prescindere dal coinvolgimento delle imprese agricole, il cui ruolo fondamentale deve essere opportunamente valorizzato in quanto parti attive nella  gestione e sorveglianza del territorio.

 

[1] Atto Senato 1054, approvato il 31 ottobre 2024






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