Conferimento d’opera nelle società di persone: va capitalizzato?

di Stefania Avoni, avvocato

Nelle società di persone i conferimenti dei soci possano avere natura differente e possono essere caratterizzati anche dalla prestazione a favore della società di un servizio o di un’attività lavorativa, manuale o intellettuale[1].

È quanto si deduce dalla lettura testuale dell’art. 2253 c.c. secondo cui, se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti uguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale, con ciò concedendo ampia autonomia alle parti.

La possibilità che i soci di una società di persone possano conferire la propria opera è poi espressamente prevista dall’art. 2295 c.c. che, oltre ad evidenziare l’obbligo di distinta indicazione nell’atto costitutivo dei conferimenti di ciascun socio, stabilisce anche la necessità di precisare le prestazioni a cui sono obbligati i soci d’opera.

Ulteriore disposizione codicistica legittimante i conferimenti d’opera nelle società di persone è l’art. 2263 c.c. che sancisce che la parte nei guadagni e nelle perdite spettante al socio d’opera è determinata dal Giudice secondo equità qualora non sia già determinata nel contratto sociale.

Sempre in tema di società di persone l’art. 2286, secondo comma, c.c. stabilisce che il socio d’opera possa essere escluso dalla società per sopravvenuta inidoneità ad eseguire la propria prestazione lavorativa.

Ciò detto, è necessario comprendere se l’apporto d’opera possa essere meno imputato a capitale al pari dei versamenti in danaro o in natura.

Teorie a confronto

Sul punto si sono contrapposti due differenti orientamenti dottrinari.

Parte della dottrina[2] sostiene che la prestazione d’opera, essendo finalizzata alla realizzazione degli scopi societari, possa essere iscrivibile a bilancio come credito maturato dalla società nei confronti del singolo socio e, conseguentemente, oggetto di espropriazione forzata. Il conferimento d’opera sarebbe, quindi, capitalizzato al pari dei conferimenti in danaro o in natura.

I fautori di questa tesi sostengono, inoltre, che la capitalizzazione degli apporti d’opera consenta una più corretta determinazione del risultato di esercizio, in quanto la non imputazione a capitale della prestazione lavorativa o del servizio reso dal socio non permette di calcolarne il costo e, di conseguenza, determina un utile fittizio maggiore. Del resto la medesima prestazione, se fosse resa dietro corrispettivo da un terzo estraneo alla società, sarebbe certamente imputata a costo con inevitabile diminuzione del saldo effettivo.

In sostanza, la scelta di non capitalizzare gli apporti d’opera permetterebbe in sede di chiusura d’esercizio di distribuire tra i soci maggiori utili di quelle che sarebbero, in realtà, effettivamente distribuibili.[3]

Infine, e non da ultimo, in sede di liquidazione della società la ripartizione dell’eventuale attivo fra i soci è immediata solo nel caso in cui l’apporto d’opera sia già stato valutato in sede di costituzione ed esternato tramite l’imputazione a capitale, senza che in merito possano sorgere conflitti tra i soci.

Altra parte della dottrina[4], partendo dal presupposto che il capitale sociale abbia una funzione di garanzia nei confronti dei creditori sociali, ritiene innanzitutto che l’apporto d’opera non possa essere annoverato tra i conferimenti di capitale in quanto connotato dal carattere dell’incertezza sotto il profilo della sua effettiva integrale esecuzione.

Detto in altri e più chiari termini, potendo il socio omettere di svolgere la propria attività lavorativa a favore della società, i creditori sociali si troverebbero a fare affidamento su un capitale sociale parzialmente incerto.

In secondo luogo la capitalizzazione dei conferimenti d’opera, proprio per l’incertezza che contraddistingue tali apporti, andrebbe a falsare la redditività dell’impresa.

Questa seconda tesi trova conforto nell’assunto dell’art. 2282 c.c. che, con riguardo alla fase di liquidazione della società, specifica che, avvenuta l’estinzione dei debiti sociali, la restituzione ai soci dei conferimenti diversi dal denaro - id est anche i conferimenti d’opera - si deve basare sulla valutazione che degli stessi risulta dal contratto sociale o, in mancanza, sul loro valore al tempo in cui furono eseguiti, con ciò implicitamente ammettendo che tali apporti non siano stati capitalizzati. Va da sé, infatti, che la valutazione di tali conferimenti non sarebbe necessaria se gli stessi fossero già stati imputati al capitale sociale.

L’art. 2282 c.c. ammette, pertanto, una valutazione dei conferimenti d’opera a patrimonio durante la vita della società ed a capitale in fase di sua liquidazione.

Ed è proprio il richiamo all’art. 2282 c.c. che permette di superare l’eccezione sollevata dall’avversa teoria secondo cui la mancata capitalizzazione dell’apporto d’opera del socio influisce sul risultato positivo di esercizio permettendo una maggiore distribuzione di utili. Pur volendo ragionare in detti termini, la situazione sarebbe, in ogni caso, riequilibrata in sede di liquidazione della società.  Ciò in quanto l’avvenuta distribuzione di maggiori utili nel corso degli esercizi sociali, andando a diminuire la liquidità societaria, comporta la possibilità di distribuire minore attivo fra i soci in sede di liquidazione.

Se ne deduce che la parità dei soci venga, comunque, rispettata anche nell’ipotesi in cui non vengano capitalizzati i conferimenti d’opera dei soci.  

A sostegno di quest’ultima tesi si menziona, inoltre, la decisione del Tribunale di Roma[5] - la prima ad essersi pronunciata sull’argomento - con cui il Giudice del Registro ha ritenuto che i conferimenti d’opera vadano intesi come conferimenti di patrimonio in quanto, pur essendo evidente la loro utilità ai fini del raggiungimento dell’oggetto sociale, non sono suscettibili di espropriazione forzata in caso di escussione del patrimonio sociale.  

Il Giudice del Registro del Tribunale di Roma prosegue argomentando che l’imputazione a patrimonio dei conferimenti d’opera serve, non soltanto a tutelare i creditori sociali da valori non effettivi del capitale sociale, ma anche a scongiurare il rischio di distribuzione tra i soci di utili non conseguiti e solo sperati.

Infine, e non da ultimo, sempre a suffragio della propria tesi il Giudicante menziona l’art. 2500-quater, secondo comma, c.c. che disciplina la trasformazione della società di persone in società di capitali. Tale disposizione normativa prevede, infatti, che il socio d’opera abbia diritto a ricevere un numero di azioni o di quote della società trasformata in misura corrispondente alla partecipazione che l’atto costitutivo gli riconosceva ante trasformazione. In mancanza, il valore delle quote o azioni riconosciute al socio d’opera nella società trasformata è determinato sulla base di un accordo tra i soci o, in assenza di accordo, dal giudice secondo equità.

Al ricorrere di una di queste due ultime ipotesi, le azioni o quote assegnate agli altri soci sono ridotte proporzionalmente in maniera tale che l’ammontare complessivo del capitale sociale trovi un limite massimo nel patrimonio netto stimato.

Ne consegue che la riduzione della partecipazione degli altri soci nella società trasformata sia giustificata proprio in virtù della mancata capitalizzazione dell’apporto del socio d’opera nell’originaria società di persone.

Conclude, infine, il Giudice del Registro del Tribunale di Roma che anche l’art. 2500-quater, secondo comma, c.c. pare confermare che i conferimenti d’opera nelle società di persone non debbano (necessariamente) essere capitalizzati.

Conclusioni

In conclusione, riteniamo di condividere l’orientamento fatto proprio dal Giudice del Registro del Tribunale di Roma a proposito del fatto che il conferimento d’opera debba essere più propriamente imputato a patrimonio e non a capitale.

I soci, pur essendo liberi di organizzare il patrimonio destinato all’impresa come ritengono più opportuno e di fissare l’entità del capitale in mancanza di una previsione di legge che imponga un minimo garantito, non possono, infatti, spingersi ad imputare a capitale valori non effettivi. La ratio si rinviene nella necessità di tutelare il legittimo affidamento dei creditori sociali rispetto al valore del capitale sociale dichiarato al mercato tramite iscrizione della società di persone al Registro delle Imprese.

Del resto è lo stesso art. 2295 n. 6 c.c. che richiede espressamente di indicare nell’atto costitutivo della società di persone i conferimenti spettanti a ciascun socio, il valore ad essi attribuiti ed il modo di valutazione proprio con il fine di dare al capitale sociale un valore “reale”.

Al di là della personale posizione assunta, giova, tuttavia precisare come, ad oggi, il Legislatore si sia indirettamente espresso sul tema (vedasi artt. 2282 e 2500 - quater, secondo comma, c.c.) contemplando entrambi i metodi; conferimento d’opera imputato a capitale e conferimento d’opera imputato a patrimonio.

Entrambe le disposizioni codicistiche sopra richiamate, infatti, accanto alla capitalizzazione prevedono la possibilità di ricorrere ad un differente trattamento del conferimento d’opera e la scelta di un metodo piuttosto che dell’altro ha inevitabili ripercussioni in sede di liquidazione della società di persone o di sua trasformazione in società di capitali.

 

 

 

 

[1] La libertà nei conferimenti propria delle società di persone non si rinviene altrettanto nelle società di capitali in ragione del fatto che i creditori nelle società personali sono sempre garantiti dalla responsabilità illimitata dei soci.  Nelle società di capitali, al contrario, l’unica garanzia che i creditori sociali hanno è costituita proprio dal patrimonio sociale.

Per questo motivo con riguardo alle società di capitali la possibilità di conferimenti d’opera è stata estesa solo alle società a responsabilità limitata a seguito della promulgazione del D.lgs. del 17 gennaio 2003, n. 6.

[2] F. DI SABATO, Manuale delle società, UTET, Torino, 1992, p. 90.

[3] Si supponga che il socio A apporti un conferimento in danaro pari a 50 mentre il socio B esegua nel corso dell’intero esercizio una prestazione lavorativa pari a 50 non capitalizzata. Ipotizzando che nel corso del medesimo esercizio la società produca ricavi per 100 e costi per 30, i due soci, a cui fosse riconosciuta un’eguale partecipazione agli utili, a fine esercizio riceverebbero ciascuno utili per 35 (100 – 30 = 70/2).

Riprendendo lo stesso esempio, se si considera tra i costi anche la prestazione eseguita dal socio B, al termine dell’esercizio a ciascuno dei due soci spetterebbero, al contrario, utili per 10 (100 – 80 = 20/2).

[4] G. MINNITI, Il socio d’opera nelle società di capitali e nelle società di persone, in Vita Notarile, N. VI, 1986, p. 1377; F. GALGANO, Le società in generale, Le società di persone, Giuffré, Milano, 1982, p. 180.

[5] Tribunale di Roma del 21 maggio 2019.

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