L’impresa familiare, disciplinata dall’art. 230-bis c.c., è una forma di impresa individuale, posto che, di fronte ai terzi, solo l’imprenditore risponde con l’intero suo patrimonio personale delle obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività di impresa.
Diversamente dall’impresa individuale, formata unicamente dall’imprenditore, quella familiare è tuttavia caratterizzata dalla compresenza di collaboratori familiari. Questi ultimi possono essere il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.
I collaboratori familiari, pur non andando incontro al fallimento per i motivi sopra riportati, hanno il diritto di intervento nelle decisioni straordinarie relative all’esercizio dell’attività aziendale, quali quelle riguardanti la sua cessazione, il diritto di mantenimento ed il diritto di partecipare alla distribuzione degli utili di impresa, in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato e nella misura massima del 49%.
Nell’ipotesi di cessione dell’azienda, i collaboratori familiari hanno altresì il diritto di prelazione, ossia il diritto ad essere preferiti ad altri potenziali acquirenti.
I collaboratori familiari, per poter validamente esercitare questi diritti loro spettanti, debbono prestare a favore dell’impresa familiare un lavoro continuativo, ossia svolto con costanza e regolarità nel tempo.
Ciò premesso, risulta nella pratica difficile attribuire una corretta interpretazione al concetto di collaborazione familiare.
È, al riguardo, considerata collaborazione familiare la tenuta della contabilità o la gestione dei rapporti con i fornitori, così come il conseguimento di una laurea, che può rappresentare un investimento nella formazione professionale utile all’esercizio dell’attività dell’impresa familiare.
Quanto alla collaborazione di familiari pensionati, il Ministero del Lavoro, con lettera Circolare del 10 giugno 2013, ha precisato che trattasi di una collaborazione con i connotati di occasionalità, con conseguente esclusione dall’obbligo di iscrizione presso l’INPS. La ratio si rinviene nel fatto che il pensionato, verosimilmente, non è in grado di fornire all’imprenditore un impegno caratterizzato da continuità.
Al tempo stesso, il lavoro domestico di un familiare rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 230-bis c.c. solo qualora risulti strettamente collegato all’attività di impresa, ipotesi, questa, che si verifica nel caso in cui lo stesso rappresenti un frazionamento di compiti nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Ne consegue che lo svolgimento di mansioni domestiche da parte del coniuge dell’imprenditore, in quanto non finalizzato al raggiungimento dello scopo economico dell’azienda ma unicamente espressione degli obblighi nascenti dal matrimonio, esuli dall’applicazione della disciplina ex art. 230-bis c.c.
Pure nell’ambito dell’impresa familiare vi possono essere alcuni indicatori tali da fare ragionevolmente presumere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Si pensi, ad esempio, all’osservanza da parte del collaboratore familiare di un orario di lavoro, di norma coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività inerente all’impresa familiare, oppure alla sua percezione di un compenso fisso.
Del resto, la normativa sull’impresa familiare ha carattere residuale, posto che la stessa si ritiene applicabile salvo che non sia configurabile un diverso rapporto di lavoro.
La costituzione dell’impresa familiare non richiede particolari formalità, potendo la stessa risultare anche da una situazione di fatto, laddove sia provato da parte del coniuge, dei parenti entro il terzo grado o degli affini entro il secondo, il lavoro continuo, non avente carattere residuale, nell’ambito dell’impresa.
Al fine di imputare una quota dei redditi ai collaboratori familiari, è tuttavia necessaria la costituzione dell’impresa familiare per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, a cui deve seguire la registrazione presso il Registro delle Imprese del Comune ove l’azienda ha la propria sede legale.
Stefania Avoni, avvocato
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