L’impresa familiare è un istituto giuridico che spesso viene utilizzato in ambito agricolo e, pertanto, conoscerne le particolarità risulta interessante per coloro che seguono i contenuti del nostro portale.
Nella presente informativa cerchiamo di tracciare alcune linee guida che ci permetteranno di conoscere meglio quali sono i requisiti essenziali perché possa sussistere la qualifica di collaboratore familiare dell’impresa.
La definizione civilistica di impresa familiare la troviamo leggendo l’articolo 230-bis del Codice Civile che subito introduce un concetto che tende a definire la stessa come un istituto giuridico residuale che viene, pertanto, a realizzarsi quando le parti non abbiano dato vita ad altri istituti maggiormente ricorrenti (lavoro subordinato, lavoro autonomo o associazione in partecipazione).
Normalmente, l’impresa familiare ha natura individuale e non collettiva (associativa) e, quindi, è imprenditore unicamente il titolare dell'impresa su cui gravano tutti gli obblighi di natura fiscale conseguenti alla posizione che riveste.
Relativamente al reddito d'impresa, va segnalato che esso, pur venendo determinato unitariamente in capo al titolare dell'impresa (per una quota almeno pari al 51% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi), può essere fatto confluire, oltre che nel reddito complessivo del titolare medesimo, anche nel reddito complessivo dei collaboratori familiari, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili spettante a ciascuno.
Per tale motivo, le imprese familiari vengono, sovente, assimilate alle società di persone, ossia a quei soggetti che determinano unitariamente il reddito prodotto in forma associata dai partecipanti, ma che poi, ai fini della sua tassazione nell'ambito delle imposte sul reddito, prevedono la diretta attribuzione per trasparenza ai soci, in modo proporzionale.
Proseguendo nella lettura del medesimo articolo, salta all’occhio che l’attività del collaboratore familiare si esplica in modo continuativo all’interno dell’impresa stessa e viene coordinata, coerentemente con gli obiettivi comuni, dal titolare dell’impresa.
Il fare parte di un’impresa familiare comporta in capo al collaboratore della stessa che la continuità richiesta dalla norma si riferisca all’apporto di lavoro piuttosto che alla presenza in azienda, lasciandolo, peraltro, libero di fornire la propria opera non in forma esclusiva.
Viene ammesso, infatti (articolo 5, comma 4 del TUIR), che il collaboratore familiare possa partecipare, in modo proporzionale, ai risultati dell’impresa familiare, prestando, in modo continuativo e prevalente, la sua attività di lavoro all’interno dell’azienda.
È chiaro, dunque, che per legittimare l’applicazione della norma fiscale non è richiesta l’esclusività dell’attività continuativa, ma solamente la prevalenza rispetto alle altre attività potenzialmente esercitabili.
Inoltre, per procedere all’imputazione per trasparenza del reddito imponibile in capo ai collaboratori familiari (nel limite massimo del 49%) è necessario che:
- i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente (con l'indicazione del rapporto di parentela o affinità con l'imprenditore) da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, sottoscritta dall'imprenditore e dai familiari interessati;
- la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, durante il periodo di imposta;
- ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la propria attività lavorativa nell'impresa in modo continuativo e prevalente.
Si precisa che, per essere considerato collaboratore familiare, il comma 3 dell’articolo 230-bis del Codice Civile specifica che tale qualifica potrà essere ricoperta dal coniuge, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il secondo, inoltre, in base al comma 1 del medesimo articolo, l’attività lavorativa svolta dal collaboratore non deve estrinsecarsi solo nell’ambito dell’impresa, ma potrà anche essere esercitata all’interno della famiglia stessa.
Da qui nasce il dibattito dottrinale che pone al centro la questione riguardante il lavoro domestico svolto dal coniuge dell’imprenditore.
Parte della dottrina, infatti sostiene, che tale attività conferisce piena legittimità al riconoscimento della qualifica di collaboratore dell’impresa familiare, mentre, altra parte della dottrina ritiene che lo svolgimento del lavoro domestico rientri nell’ambito dei doveri coniugali previsti dal diritto di famiglia.
A dirimere la questione è intervenuta la giurisprudenza che, oltre a sottoscrivere l’impostazione dottrinale che fa rientrare il lavoro domestico nell’ambito dei doveri coniugali, ha sostenuto che quando tale attività prescinde o eccede i predetti doveri, se viene svolta in modo continuativo e prevalente può valere ad individuare nel soggetto la qualità di partecipe della stessa (impresa familiare), qualora risulti strettamente correlata e finalizzata alla gestione consortile.
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