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Anche le imprese agricole falliscono. Così ribadiscono i Giudici di legittimità, confermando che non è sufficiente che al momento della presentazione dell’istanza di fallimento l’impresa svolga unicamente un’attività agricola se l’attività che ha originato la situazione di insolvenza aveva natura commerciale.
Come noto, il primo comma, dell’articolo 1, del Regio Decreto n. 267/1942, prevede che siano soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, con esclusione degli gli Enti pubblici.
Le imprese che invece esercitano esclusivamente attività agricola di cui all’art. 2135 c.c. non sono soggette al fallimento. Tuttavia, rispetto all’impostazione del Codice Civile, risalente al 1942, le attività svolte dall’imprenditore agricolo, in particolare nell’ambito della multifunzionalità voluta con la riforma del 2001, si sono ampliate, includendo anche ambiti che sarebbero normalmente classificati nell’alveo delle attività commerciali ma che, tuttavia, se svolte dall’imprenditore agricolo e nel rispetto di determinati requisiti, sono comunque ricomprese tra le attività agricole di cui all’art. 2135 del Codice Civile.
L’imprenditore agricolo (e in generale l’impresa che svolge attività agricola) non deve sottovalutare gli effetti di uno sconfinamento dei limiti fissati dall’articolo 2135, infatti, indipendentemente dal fatto che si siano correttamente pagate le imposte, l’esercizio di attività commerciali potrebbe fare rientrare l’attività agricola tra quelle fallibili.
Di questo problema si è recentemente occupata la Cassazione nell’Ordinanza n. 2162/2023.
Il caso in questione riguardava una società agricola a responsabilità limitata che, nell’ambito dell’attività agricola, svolgeva anche l’attività di produzione di energia da biomasse.
La società riteneva di non poter essere soggetta alla disciplina fallimentare in quanto svolgeva unicamente attività di coltivazione e attività di produzione di energia anche attraverso l’utilizzo delle biomasse prodotte dalla stessa. Tra le argomentazioni a supporto della propria tesi, la società sosteneva, inoltre, che la produzione di energia da biomasse da parte di un’impresa agricola, nei limiti di 2.400.000 kWh, dovesse sempre essere considerata connessa all’attività agricola prevalente, a prescindere dall’origine delle biomasse. Infine, in relazione al disposto dell’articolo 14, comma 13-quater, D.Lgs. 99/2004[1], l’impresa sosteneva che tale disposizione fosse volta non tanto a riconoscere l’attività agricola primaria di coltivazione anche in relazione alle attività dirette alla produzione di colture destinate a biomassa (quindi non destinate all’alimentazione umana o animale), bensì a qualificare come agricola qualunque attività volta alla produzione di energia mediante l’utilizzo di biomasse.
I Giudici hanno invece chiarito che, affinché un’attività agricola possa essere considerata tale, devono essere rispettati gli specifici limiti imposti dal Legislatore. In particolare, citando un precedente giudizio (Cass. 12791/1997), occorre che l’attività effettivamente svolta abbia collegamento con il terreno. Ad esempio, nel caso dell’allevamento di cavalli da corsa, quando l’attività abbia come finalità l'attività ippica, ossia l'utilizzo del cavallo sotto il profilo dello sport dell'equitazione (agonistico), identifica chiaramente un’attività di tipo commerciale.
Nell’ambito della silvicoltura, la semplice diponibilità di un bosco non integra un’attività di cura del ciclo biologico se non si svolgono le normali attività richieste per questo tipo di attività (regimazione delle acque superficiali, taglio, rimboschimento, ecc.).
La nozione di “cura e sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso” implica la necessità che l’impresa si occupi effettivamente dell’attività produttiva, anche avvalendosi del supporto di contoterzisti.
Non è quindi scontato che la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico di carattere vegetale o animale i cui prodotti non siano destinati all’alimentazione rientri nella nozione delle attività agricola di cui all’art. 2135 del Codice Civile.
L’articolo 2135 C.C., nel definire i limiti delle attività agricole connesse, indica che per la produzione di beni[2] a seguito dell’attività di trasformazione debbano utilizzarsi “prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali”.
Il concetto della prevalenza, sempre in relazione alla produzione di beni, è stato ampiamente illustrato nella Circolare 44/E del 2002 e nella Circolare 44/E del 2004, le quali indicano anche le modalità con cui verificare la prevalenza nel caso di acquisto di prodotti omogenei (criterio della quantità), sia nel caso di prodotti non omogenei (criterio del valore). Inoltre, circa la necessità del rispetto della prevalenza dei prodotti propri, l’Agenzia delle Entrate ne ha ripreso i concetti nella Circolare 32/E, del 6 luglio 2009, dedicata alla produzione di energia da fonti rinnovabili. Nel caso della produzione di energia, di prodotti chimici o carburanti da biomasse, nel calcolo della prevalenza, occorre considerare solo le produzioni proprie destinate a tali attività, confrontandole con i prodotti acquistati da terzi (e non anche quelle destinate alla commercializzazione o comunque ad altri usi).
Anche il comma 423, art. 1, Legge n. 266/2005, dopo aver fissato i limiti entro i quali la tassazione dell’attività di produzione di energia rientra nei redditi agrari, precisa che è comunque richiesta la prevalenza dei propri prodotti per la produzione di energia da biomasse, di carburanti e prodotti chimici.
Nel caso di specie, la società era proprietaria di alcuni terreni limitrofi all’impianto produttivo di energia. La stessa si era accordata con un’impresa confinante per la coltivazione di tutti i terreni (propri e del confinante), con l’impegno di destinare l’intera biomassa all’impianto per la produzione di energia.
Avendo la Corte d’appello rilevato che i prodotti acquistati dall’azienda confinante non consentivano di rispettare il parametro della prevalenza, aveva disconosciuto la natura agricola dell’attività. Pertanto, i Giudici di legittimità non hanno potuto far altro che dichiarare corretto l’operato della Corte d’appello.
Inoltre l’impresa, avendo cessato l’attività di produzione di energia negli anni precedenti l’avvio del procedimento prefallimentare (in quanto non aveva le risorse per provvedere alla manutenzione dell’impianto), ed avendo, pertanto, svolto negli ultimi esercizi esclusivamente attività di coltivazione di cui al primo comma dell’art. 2135 C.C., sosteneva fosse irrilevante l’attività “commerciale” di produzione di energia precedentemente svolta, con la conseguenza che la procedura fallimentare non poteva applicarsi.
I Giudici di legittimità, coerentemente con l’orientamento già espresso in precedenza dalla Cassazione, hanno ribadito che “l’assoggettabilità a fallimento di un’impresa non dipende dalla rilevazione puntuale dell’attività svolta al momento della presentazione della relativa istanza, dovendosi avere riguardo, invece, all’attività da cui origina l’insolvenza. Pertanto, il pregresso svolgimento di attività commerciale è sicuramente rilevante nel caso in cui a quella attività, quantunque cessata, sia riconducibile l’insorgere dei debiti che l’imprenditore «non è in grado di soddisfare regolarmente» (art. 5, comma 2, Legge fall.)”.
Pertanto, “una volta accertato in sede di merito l’esercizio in concreto di attività commerciale, in misura prevalente sull’attività agricola contemplata in via esclusiva dall’oggetto sociale di un’impresa agricola costituita in forma societaria, questa resta assoggettabile a fallimento nonostante la sopravvenuta cessazione dell’esercizio di detta attività commerciale prevalente al momento del deposito di una domanda di fallimento a suo carico” (Cass. n. 5342/2019).
[1] Art.14, co.13-quater, D.Lgs. 99/2004: L’attività esercitata dagli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del Codice Civile, di cura e sviluppo del ciclo biologico di organismi vegetali destinati esclusivamente alla produzione di biomasse, con cicli colturali non superiori al quinquennio e reversibili al termine di tali cicli, su terreni non boscati, costituisce coltivazione del fondo ai sensi del citato articolo 2135 del Codice Civile e non è soggetta alle disposizioni in materia di boschi e foreste. Tali organismi vegetali non sono considerati colture permanenti ai sensi della normativa comunitaria.
[2] La produzione di energia è stata qualificata come produzione di beni.