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Le società di persone (Snc, Sas), a responsabilità limitata e le società cooperative che rivestono la qualifica di società agricola di cui all’art. 2 del D.Lgs. 99/2004 possono optare per la tassazione su base catastale, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 1093 della Legge n. 296/2006. Si tratta di una vera e propria finzione giuridica in base alla quale il reddito mantiene la propria natura di reddito di impresa ma viene determinato secondo i criteri catastali di cui all’art. 32 del TUIR (reddito agrario).
Siamo al cospetto di un beneficio di estrema rilevanza, che completa il disegno riformatore iniziato con la Legge di orientamento del 2001, sviluppato con il D.Lgs. 99/2004 (introduzione del concetto di società agricola), poiché, in precedenza, la tassazione su base catastale era riservata esclusivamente alle persone fisiche, alle società semplici e agli enti non commerciali.
L’evoluzione normativa ha portato al diffondersi delle SRL agricole che, come noto, sono dotate di un’autonomia patrimoniale perfetta, avendo personalità giuridica. Queste società sono soggette alle norme civilistiche sul bilancio e possono determinare il reddito sulla base del risultato d’esercizio oppure, manifestando una precisa scelta, sulla base dei redditi catastali rivalutati dei terreni condotti. Si tratta, nella generalità dei casi, di una consistente agevolazione, sia in termini di risparmi d’imposta che di limitazione del potere di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria (va comunque precisato che la determinazione del reddito su base catastale non riguarda le attività agricole che non trovano corrispondenza con quelle dell’art. 32 del TUIR).
Inoltre, se all’opzione di cui al comma 1093 si associa quella per la trasparenza fiscale, il reddito catastale viene tassato direttamente in capo al socio e, come accade nelle società di persone, la successiva distribuzione di utili non viene assoggettata a tassazione.
Il beneficio è indubbiamente rilevante, ma non mancano i dubbi interpretativi. Ci si riferisce, in particolare, ai limiti del requisito dell’“esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c.” (presupposto essenziale per poter esercitare l’opzione) che, come chiarito dalla Circolare dell’Agenzia n. 50/E del 2010, deve trovare riscontro nell’effettiva attività svolta dalla società.
Nonostante il terzo comma della disposizione in esame contempli, fra le attività agricole connesse, anche la “commercializzazione” non prevalente di prodotti agricoli di terzi, la maggioritaria dottrina e la prassi dell’Agenzia delle Entrate (Circolare n. 44/E del 2004) hanno escluso che tale attività possa, da sola, rientrare nell’ambito dell’art. 2135 c.c.
Il sopracitato orientamento restrittivo legittima l’imprenditore agricolo alla sola commercializzazione dei prodotti agricoli propri, o anche acquistati, ma in misura non prevalente e previa trasformazione e manipolazione unitamente ai propri. Tuttavia, l’art. 4 del D.Lgs. 228/2001 consente a tutti gli imprenditori agricoli di vendere al dettaglio su tutto il territorio nazionale prodotti agricoli finiti di terzi in misura non prevalente. L’art. 1-bis autorizza alla vendita diretta “… i prodotti agricoli e alimentari, appartenenti ad uno o più comparti agronomici diversi da quelli dei prodotti della propria azienda, purché direttamente acquistati da altri imprenditori agricoli. Il fatturato derivante dalla vendita dei prodotti provenienti dalle rispettive aziende deve essere prevalente rispetto al fatturato proveniente dal totale dei prodotti acquistati da altri imprenditori agricoli”.
Ci troviamo, dunque, al cospetto di due norme, appartenenti al medesimo corpus, che apparentemente dispongono l’una il contrario dell’altra.
Siccome è del tutto illogico che il Legislatore, con la medesima Legge, da una parte abbia consentito nella vendita diretta la cessione di prodotti non propri e, dall’altra, abbia voluto, per tale ipotesi, il far venir meno dei presupposti che qualificano l’imprenditore agricolo, si deve preferire la tesi che il citato art. 4 debba essere letto come norma speciale; per cui non si può che ammettere che la vendita al consumatore di prodotti agricoli ed alimentari acquistati e rivenduti nel rigido rispetto delle disposizioni sulla vendita diretta è una attività connessa tipica dell’imprenditore agricolo. La relazione tra le due normative, quella del Codice e quella speciale dell’art. 4, è data dal principio della prevalenza, così come avviene in altre attività connesse di tipo turistico e ricettivo, anch’esse oggetto di regolamentazione speciale.
Questa è anche l’opinione di chi scrive. Conseguentemente, una Srl agricola in opzione (ed anche una Snc o una Sas) dovrebbe poter vendere al dettaglio anche prodotti agricoli di terzi senza correre il rischio di decadere dall’esercizio esclusivo delle attività agricole, fermo restando che i proventi derivanti da tale attività devono essere assoggettati a tassazione secondo le regole del reddito d’impresa (ricavi meno costi).
Un’interpretazione del tutto in linea con il dettato normativo. Tuttavia, l’assenza di chiarimenti sul punto da parte dell’Amministrazione Finanziaria centrale non esclude che gli Uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate procedano all’accertamento della perdita dei requisiti di società agricola e al recupero delle imposte sul reddito effettivo. Accertamenti contro i quali esistono comunque fondati argomenti di opposizione.
Al contrario, non si può giungere alle medesime conclusioni per quanto concerne la vendita all’ingrosso di prodotti acquistati e rivenduti senza un processo di manipolazione o trasformazione, poiché senza la copertura dell’art. 4 del D.Lgs. 228/2001 questa attività deve considerarsi certamente esclusa dall’art. 2135 del Codice Civile.