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Dopo la modifica operata con l’ultima Legge di Bilancio (L. 205/2017), l’articolo 20 del Testo Unico del Registro appare una norma completamente rivoluzionata i cui confini applicativi risultano però ancora incerti, in attesa che prassi e giurisprudenza sedimentino un orientamento stabile.
Uno degli ultimi pronunciamenti è quello contenuto nella sentenza n. 5755/2018 della Corte di Cassazione, con cui i giudici di legittimità hanno deciso del caso di alcuni agricoltori che, dopo aver costituito una società agricola, vi avevano conferito tutti i beni mobili ed immobili appartenenti alla propria azienda.
Dopo qualche mese dalla costituzione della nuova società, i soci cedevano a due soggetti terzi le partecipazioni sociali: tale operazione, però, ha destato i sospetti dell’Agenzia che prontamente ha emesso un avviso di liquidazione nei confronti delle parti, per il recupero delle maggiori imposte dovute.
Secondo l’Ufficio, infatti, l’operazione doveva qualificarsi come una cessione di azienda agricola e ciò poteva desumersi da numerosi elementi che testimoniavano l’assenza di interesse dei soci nella gestione della società e la pretestuosità del conferimento al solo fine di ottenere un illegittimo risparmio di imposta.
A seguito di contrapposte decisioni nei due gradi di merito (a favore dei contribuenti la CTP, in senso contrario la CTR), è stato necessario l’intervento della Cassazione che, nel dirimere la questione, non ha fatto altro che confermare il proprio orientamento, purtroppo ormai consolidato, in merito all’interpretazione della vecchia formulazione dell’art. 20 del TUR in vigore fino al 31 dicembre 2017.
Gli Ermellini hanno affermato la necessità di riqualificare l’operazione come una cessione di azienda agricola “mascherata”: pertanto, hanno condiviso i rilievi avanzati dall’Ufficio, così come le relative richieste di integrazione delle maggiori imposte non versate.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, la legge esprime il principio di prevalenza della sostanza sulla forma; conseguentemente, nel caso in esame, i due atti (conferimento e cessione di quote) erano da ritenersi parte di un’unica operazione. Pertanto, la riqualificazione della stessa era assolutamente ineludibile.
L’orientamento espresso dagli Ermellini dovrebbe essere completamente superato dalla nuova formulazione dell’art. 20. Infatti, con la novella normativa sono state introdotte una serie di limitazioni all’impiego della disposizione in esame, che potrà essere utilizzata per interpretare sempre e solo il singolo atto presentato per la registrazione, indipendentemente da eventuali legami con altri atti.
In buona sostanza, non sarà più possibile riqualificare come cessione d’azienda operazioni complesse come quella in esame che hanno visto in un primo momento il conferimento dell’azienda e successivamente il trasferimento delle partecipazioni.
Ricordiamo che i confini applicativi della disposizione in esame sono oggetto di ampio dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza da cui emergono orientamenti contrapposti in merito al fatto che tale norma sia qualificabile come dispositiva o interpretativa. Da ciò discende la sua applicabilità solo pro futuro o anche retroattiva.
Sul caso in esame, la Cassazione ha affermato che l’applicabilità della nuova disciplina riguarda solo il futuro e che non può essere applicata per i casi precedenti alla sua approvazione.
In senso conforme si è già più volte pronunciata la Cassazione (ad esempio sent. 2007/2018 e 4588/2018), ma anche l’Agenzia delle Entrate durante Telefisco. Va segnalato, però, che non sono mancate le decisioni in senso contrario (cfr. CTP Reggio Emilia n. 4/2/18), le quali però appaiono, ad oggi, sempre più minoritarie.