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L’associazione in partecipazione in agricoltura è una forma di contratto associativo con cui l’associante, ai sensi dell’art. 2549 c.c., attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa, o di uno o più affari, a fronte di un determinato apporto da parte di quest’ultimo.
Nella pratica, capita tuttavia di frequente che l’associazione in partecipazione venga riqualificata dall’Agenzia delle Entrate come contratto di lavoro subordinato, così che risulti di fondamentale importanza capire quali siano i requisiti distintivi dell’una e dell’altra tipologia contrattuale.
Ciò che contraddistingue innanzitutto l’associazione in partecipazione, dal contratto di lavoro subordinato, è la partecipazione dell’associato al rischio di impresa, inteso come incertezza da parte di questi sulla possibilità di guadagno oltre che sul quantum.
Detto in altri e più chiari termini, essendo la quota spettante all’associato calcolata in proporzione agli utili di impresa, all’associato nulla sarà dovuto laddove non vi siano utili.
Al tempo stesso, anche nell’ipotesi opposta di presenza di utili, sussistono sempre profili di incertezza sull’entità di quanto dovuto all’associato, a titolo di corrispettivo per la sua partecipazione in denaro o in lavoro. Ciò in quanto gli utili da percepire non possono mai essere predeterminati.
Diverso discorso per la partecipazione alle perdite ad opera dell’associato, che può anche mancare su comune accordo delle parti.
In questo caso, il rischio d’impresa, seppur venga in parte attenuato dall’esclusione dell’associato dalle perdite, non viene comunque completamente annullato, dal momento che resta sempre la possibilità che l’associato, qualora non vi siano utili, non percepisca alcun guadagno, nonostante il conferimento del suo apporto.
Ciò che, al contrario, farebbe venire totalmente meno il rischio di impresa, è la corresponsione all’associato di un importo fisso minimo sempre garantito, altrimenti configurandosi il diverso rapporto di lavoro subordinato, per il quale, anzi, è vietata l’aleatorietà, così come previsto a livello costituzionale dall’art. 36 Cost.
La partecipazione agli utili, così come descritta dall’art. 2549 c.c., non è tuttavia elemento da solo sufficiente a distinguere l’associazione in partecipazione dal rapporto di lavoro subordinato.
La partecipazione agli utili, infatti, può configurarsi anche con riguardo proprio alla subordinazione, dal momento che l’art. 2099, comma 3, c.c. prevede che il prestatore di lavoro possa essere retribuito, in tutto o in parte, con partecipazione agli utili o ai prodotti.
Ecco pertanto che risulta necessaria la compresenza altresì di un ulteriore requisito tipico dell’associazione in partecipazione, così come di tutti i contratti associativi.
Si tratta dell’assenza di alcun controllo gerarchico da parte dell’associante nei confronti dell’associato. Sul punto occorre avere riguardo alle modalità esecutive dell’associazione in partecipazione, al fine di verificare se, nel caso concreto, vi sia un’effettiva partecipazione, più o meno ampia, dell’associato alla gestione aziendale.
Una forma di partecipazione dell’associato alla gestione aziendale, tale da non far temere che dietro il contratto di associazione in partecipazione si simuli in realtà un rapporto di lavoro subordinato, può consistere nella necessità del consenso dell’associato alla possibilità di subingresso nell’associazione di altri potenziali associati.
Occorre, in conclusione, prestare molta attenzione nel momento in cui si decide di instaurare un’associazione in partecipazione, avendo riguardo soprattutto alla garanzia di sussistenza dei due elementi costitutivi sopra descritti, al fine di non incorrere in sanzioni e riqualificazioni ad opera degli enti a ciò preposti.
Stefania Avoni, avvocato