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Si definisce trasferimento la modifica unilaterale del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa operata dal datore di lavoro, nell’esercizio del c.d. ius variandi.
Il trasferimento si differenzia dalla trasferta in quanto consiste in un provvedimento definitivo, mentre quest’ultima presenta il carattere della temporaneità, con la conseguenza che il lavoratore è destinato a rientrare nella posizione iniziale al termine della missione stessa.
Il limite per l’esercizio di tale potere è stabilito dall’art. 2103, comma 8, del Codice Civile, che subordina il trasferimento alla sussistenza di “comprovate ragioni, tecniche, organizzative e produttive”.
La legittimità dell’atto risulta pertanto inscindibilmente legata alle ragioni oggettive che devono supportare il trasferimento stesso, ovvero all’applicazione dei criteri di correttezza e buona fede che caratterizzano l’esecuzione del contratto di lavoro.
La richiesta di trasferimento, qualora proveniente dal lavoratore, non prevede particolari vincoli o condizioni specifiche previste dalla normativa.
Diversa è la condizione che si verifica qualora sia il datore di lavoro a farne richiesta, il quale dovrà inevitabilmente attenersi alle disposizioni di legge e alla contrattazione collettiva.
Qualora il trasferimento avvenga all’interno della stessa unità produttiva, il datore di lavoro non ha l’onere di giustificare e motivare la variazione di sede nel rispetto dei limiti di cui sopra, mentre nel caso in cui il trasferimento avvenga da un’unità produttiva ad un’altra è obbligatorio che siano motivate le ragioni tecniche, organizzative e produttive sottese.
In ogni caso, qualora il lavoratore ne faccia richiesta nei termini previsti, il datore di lavoro è tenuto ad esplicare le ragioni sottese al provvedimento.
Nella fattispecie appena esposta è obbligatorio altresì verificare le condizioni previste dal CCNL che può prevedere, tra le diverse specifiche, anche un periodo di preavviso.
La copiosa giurisprudenza in materia ha stabilito che il controllo giurisdizionale delle ragioni che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato debba essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell’iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 della Costituzione.
Tuttavia, sul datore di lavoro non incombe l’onere di dimostrare il carattere inevitabile del trasferimento riguardo all’inutilizzabilità del lavoratore nell’unità produttiva originaria, ma è sufficiente riscontrare la fondatezza delle ragioni che costituiscono il presupposto del provvedimento.
In mancanza delle condizioni sopra indicate, il trasferimento è illegittimo e può essere annullato dal Giudice del lavoro. È nullo il trasferimento disposto per motivi discriminatori o ritorsivi, mentre è legittimo quando disposto per incompatibilità ambientale, ovvero giustificato da un’ambiente disfunzionale all’interno dell’azienda.
In presenza di trasferimento legittimo il lavoratore non può rifiutarsi di dare seguito alle disposizioni del proprio datore di lavoro, in caso contrario è ammessa la possibilità di ricorrere al licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
In caso di illegittimità, invece, la questione che si prospetta è delicata.
L’eventuale licenziamento dovrà essere annullato e al lavoratore dovrà essere garantita la retribuzione contrattuale per tutto il periodo nel quale risulta a disposizione del datore di lavoro, senza essere stato riammesso in servizio.
Il dipendente, a sua volta, potrà opporsi al trasferimento con qualsiasi atto, anche extragiudiziale, nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione formalizzatagli dal datore di lavoro, ed entro i successivi centottanta giorni dovrà depositare il ricorso alla Cancelleria del Tribunale, oppure comunicare alla controparte la propria richiesta di conciliazione.
Andrea Fiumi, consulente del lavoro
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