L’imposta di registro è comunemente definita come “imposta d’atto”[1], in quanto riferibile ad un atto o negozio giuridico che solitamente è documentato in forma scritta.
Gli atti soggetti a registrazione in “termine fisso”, in quanto la registrazione deve avvenire obbligatoriamente entro un determinato termine, sono quelli individuati dalla Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986 (Testo Unico Imposta di Registro - TUR). Ciascuno di essi risponde a finalità diverse per cui è necessario procedere ad una verifica preliminare ed attenta del documento, del suo contenuto e degli effetti giuridici che ne possono conseguire, in modo tale da evitare possibili errori di interpretazione dell’atto/negozio giuridico tali da incidere sulla sua tassazione (più propriamente, l’aliquota da applicare).
Un supporto a tale scopo è quello fornito dalla normativa di riferimento ed in particolare dall’art. 20 del TUR il quale indica, ai fini dell’applicazione del tributo, i criteri da seguire nella “interpretazione degli atti” al fine di valutare essenzialmente i possibili effetti (giuridici) che ne possono conseguire.
Ai sensi del D.P.R. n. 131/1986, art. 20, l'imposta di registro “è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
In origine la norma, disponeva che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” ma, nel corso degli anni, ha subito degli interventi a cominciare dalle modifiche introdotte dalla Legge n. 205/2017, art. 1, comma 87, lett. a), con effetto dal 10 gennaio 2018.
La Cassazione è intervenuta ripetutamente sull’argomento soffermandosi, in modo particolare, sull’aspetto temporale delle modifiche al fine di accertare se l’art. 20, così rivisto, fosse applicabile solo per il futuro, ovvero anche agli atti registrati prima della sua entrata in vigore ed ancora in corso di accertamento o sub judice.
Così, la Corte maturò il convincimento, suffragato da diverse Sentenze (si citano: cfr. Cass. n. 2007 del 26 gennaio 2018; n. 4407 del 23 febbraio 2018; n. 7637 del 28 marzo 18; n. 8619 del 9 aprile 18 ed altre), che tali modifiche non attribuivano alla norma natura interpretativa, bensì innovativa, in quanto introducevano limiti all’attività di riqualificazione della fattispecie, precedentemente non previsti: ne derivava, quindi, che tale disposizione non aveva efficacia retroattiva e, pertanto, gli atti antecedenti alla data dell’entrata in vigore della stessa continuavano ad essere assoggettati all’imposta secondo la disciplina previgente alla riformulazione del testo.
Al fine di dare certezza alla norma il Legislatore è nuovamente intervenuto, con la Legge n. 145/2018, art. 1, comma 1084, disponendo che la disposizione costituiva interpretazione autentica del testo D.P.R. n. 131/1986, n. 131, art. 20, comma 1. Si trattava, quindi, di un provvedimento con il quale si rendeva manifesta la volontà di attribuire portata retroattiva alla formulazione dell’art. 20, risultante dalla Legge di Bilancio 2018, quale effetto abitualmente riconducibile alla norma di interpretazione autentica ed alla sua natura prettamente dichiarativa di un significato fin dall’inizio contenuto nella norma intesa; interpretazione confermata anche delle SS.UU., con Sentenza n. 18520 del 10 luglio 2019, le quali hanno ritenuto che la formulazione del testo così modificato costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1.
Anche la Corte Costituzionale è stata chiamata in causa al fine di esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’articolo; questione sollevata dalla Suprema Corte (cfr. Cassazione n. 23549 del 23 settembre 2019).
Con la Decisione n. 158 del 21 luglio 2020, la Consulta ha ritenuto che il Legislatore abbia inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro precisando l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo, e degli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal Testo Unico. In tal modo risulta rispettata la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico; coerenza sulla cui verifica verteva il giudizio di legittimità costituzionale.
Da ultimo, la Corte Costituzionale (Sentenza n. 39 del 16 marzo 2021) ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’articolo in questione.
Contratto di affitto di un fondo rustico
Le puntualizzazioni di cui sopra sono sistematicamente ribadite dalla Cassazione tutte le volte che si trova ad esaminare controversie dove si lamenta l’errata interpretazione di un atto o di un negozio giuridico atteso che, come detto in premessa, il tutto si traduce poi nella corretta tassazione del documento posto alla registrazione.
Per tale motivo la giurisprudenza è ridondante di pronunciamenti sul tema proprio perché ogni atto (documento) implica un’attenta riflessione circa la sua portata e gli scopi che si prefigge di conseguire.
È capitato, ad esempio, che l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate contestasse il contratto di affitto di un fondo rustico che gli eredi del de cuius, titolare di un’azienda agricola, avevano stipulato con una società agricola, per la durata di otto anni, applicando l’imposta di registro nella misura dello 0,5% in base al D.P.R. n. 131/1986, art. 5, comma 1 lett. a), Tariffa, parte prima.
Nella circostanza, l’Ufficio aveva notificato, nel luglio del 2012, distinti avvisi di accertamento e liquidazione della maggiore imposta di registro, sul presupposto che si trattasse, nella fattispecie, di affitto di azienda, esente da IVA, a cui andava applicata l’imposta di registro proporzionale (3%: ex art. 9, Tariffa, parte prima, del TUR) e che anche per gli allegati all’atto era dovuto il pagamento dell’imposta di bollo.
Gli eredi e la società agricola impugnavano gli avvisi sul presupposto che, essendo deceduto il titolare dell’azienda agricola, coloro che vi era succeduti, in quanto privi della qualifica di Imprenditori Agricoli Professionali (IAP), erano stati costretti a concedere alla società l’affitto agrario del fondo (ex Legge n. 203/1982); solitamente la disciplina fissa la durata minima di tale contratto in quindici anni perché, rispetto alle altre locazioni immobiliari, la coltivazione del terreno agricolo è condizionata da vari fattori (semina, raccolta dei prodotti, ed altro) che implicano ovviamente un periodo di più lunga durata circa la disponibilità del bene. Per i terreni poco produttivi però i tempi si riducono ad un minimo contrattuale di sei anni.
Il ricorso era accolto dalla CTP e parimenti la CTR respingeva le pretese dell’Amministrazione Finanziaria sostenendo che, nell’individuare la natura del contratto concluso, occorreva accertare la comune intenzione delle parti contraenti.
Nel caso di specie, dopo il decesso de cuius e in assenza dei requisiti necessari per proseguire l’attività, gli eredi erano stati costretti a rivolgersi ad uno IAP per la prosecuzione dell’attività; avevano, quindi, agito in buona fede senza alcun scopo elusivo o di frode al fisco, tant’è che l’impresa risultava iscritta alla Camera di Commercio con la qualifica suddetta. Questo perché, nell'ambito specifico dell'imposta di registro, l’Amministrazione Finanziaria ravvisa nell'art. 20 una norma antielusiva[1].
Nel ricorso per Cassazione l’Agenzia delle Entrate contestava la Sentenz2 della CTR in quanto, a suo giudizio, non aveva considerato concretamente la volontà delle parti che era, in realtà, quella di affittare l’intera impresa agricola, ovvero l’intero complesso dei beni aziendali esistenti sul fondo (scorte morte, attrezzature, macchinari, cambiali agrarie e finanziamenti in atto), circostanze queste che denotavano appunto la volontà di affittare l’azienda e non il mero fondo agricolo. Conseguentemente risultavano disattese le seguenti disposizioni del D.P.R. n. 131/1986: artt. 20 e 40, art. 5, comma 1, lett. a) e art. 9, Tariffa, parte prima, nonché il D.P.R. n. 633/1972, art. 10, comma 1, n. 8. Da qui, il recupero dell’imposta di registro in misura proporzionale motivato altresì dal fatto che il Giudice d’appello non aveva considerato, nella circostanza, che l’imposta di registro è una “imposta d’atto” regolata dalla legge in relazione all’oggettiva sussistenza di un atto giuridico da interpretare ed intendere secondo l’intrinseca natura e lo specifico contenuto dell’atto stesso. Sostanzialmente il Giudice aveva disatteso l’art. 20 del TUR non interpretando correttamente l’atto.
Nel merito, la Cassazione, dopo aver riassunto gli interventi normativi che hanno portato alla rielaborazione del predetto articolo, ha rilevato che il dato normativo di partenza, quello cioè sul quale si basava l’avviso di accertamento, era costituito dal previgente art. 20 del TUR. Fermo restando il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, la Corte ha osservato che l’intervento di modifica della norma ha significativamente ristretto l’oggetto dell’interpretazione negoziale al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili; non rilevano quindi più, come espressamente indicato dal Legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali.
Non essendo stato contestato ai contraenti, dallo stesso Ufficio, l’intento elusivo, ma una diversa qualificazione giuridica del negozio posto in essere, in contrasto con il disposto dell’art. 20 come novellato, le censure mosse dall’ufficio dovevano ritenersi disattese. Il ricorso è stato, quindi, respinto (cfr. Cassazione n. 7157 del 15 marzo 2021).
Un caso recente
Quello esaminato è soltanto uno dei casi posti al vaglio dei Giudici di legittimità che si è ritenuto opportuno segnalare in quanto riguardava una fattispecie attinente, da vicino, il settore agricolo; nello specifico l’applicazione dell’imposta di registro ad un contratto di affitto agrario.
Ma il dibattito con l’Amministrazione Finanziaria non si è esaurito qui perché, di recente, la questione, riguardante sempre l’interpretazione dell’art. 20 del TUR, è stata nuovamente rispolverata e posta all’attenzione della Suprema Corte (cfr. Cassazione, n. 24647 del 13 settembre 2021).
Nei fatti, l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate aveva notificato, ai sensi di detto articolo, un avviso di accertamento ad una società (costituita nel 2008), con cui si riqualificavano gli atti di costituzione di società, aumento di capitale sociale, e successiva cessione della partecipazione, in una cessione di ramo d’azienda così liquidando la maggiore imposta di registro.
Per l’Ufficio, quindi, gli atti negoziali posti in essere dalla società, conferente e cedente delle quote sociali, erano stati posti in essere al solo scopo di trasferire il ramo d'azienda.
Diversamente dalla società ricorrente, l’Ufficio riteneva che fosse possibile ricondurre ad un unico negozio giuridico quel “frazionamento” di una pluralità di atti, per tassarne l'effetto finale, poiché se è vero che l'imposta di registro deve essere applicata in base alla "intrinseca natura" ed "agli effetti giuridici degli atti", è altrettanto vero che è necessario tener conto dell'eventuale collegamento funzionale instaurato dalle parti tra più negozi giuridici.
Ravvisando, quindi, nell'art. 20 anche una norma antielusiva, l’Ufficio si era comportato di conseguenza notificando quegli avvisi sulla base di un indirizzo interpretativo della norma per cui l'Amministrazione sarebbe legittimata a disconoscere gli effetti tributari e civili tipici degli atti o negozi, posti in essere dalle parti, ogni qual volta tali effetti non appaiono conformi alla "causa reale" dell'operazione economica complessivamente realizzata e, dunque, prescindendo dal nomen iuris attribuito all'atto.
Nel merito la Cassazione ha confutato tale tesi ritenendola in contrasto con la giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’interpretazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.
La Suprema Corte ha, quindi, fatto presente che l'incorporazione in un solo documento di più dichiarazioni negoziali, produttive di effetti giuridici distinti, e l'incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo, costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal Legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell'effetto giuridico finale dei loro comportamenti, semplici o complessi che essi siano (Cassazione: n. 3562 del 10 febbraio 2017; n. 5748 del 9 marzo 2018).
Pertanto - afferma la Corte - ai fini dell'imposta di registro operazioni strutturate mediante conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni della società conferitaria (come la presente fattispecie) non possono essere riqualificate in una cessione di azienda e non configurano di per sé il conseguimento di un vantaggio indebito realizzato in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario (fatta salva l'ipotesi in cui tali operazioni siano seguite da ulteriori passaggi, ad esempio una fusione diretta o inversa, che renderebbero chiara la volontà di acquisire direttamente l'azienda, ovvero di perfezionare ab origine un asset deal).
[1] Storicamente riconosciuta al tributo di registro dopo la sostanziale evoluzione da tassa a imposta.
[2] Per la Cassazione però la disposizione non contiene una disposizione antielusiva strictu sensu, come quella del D.P.R. n. 600 /1973, art. 37-bis, bensì una regola interpretativa (Cassazione: n. 3562 del 10 febbraio 2017).
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