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Negli ultimi sessant’anni il settore dell’agricoltura è cambiato in maniera radicale, tanto da richiedere l’intervento del legislatore che, con la riforma del 2001, ha introdotto una serie di norme volte a regolare una realtà basata non più sul piccolo coltivatore o mezzadro, ma costruita su aziende agricole multifunzionali e fortemente strutturate.
Da quella riforma sono passati ormai vent’anni e il comparto agricolo, in continua e costante metamorfosi, invoca sempre più un coordinamento tra le norme del settore e i principi stabiliti da prassi e giurisprudenza che, con gli anni, si sono consolidati al punto di diventare veri e propri dettami in grado di regolamentare il settore, anche se talvolta paiono del tutto antigiuridici.
La mancanza di un allineamento preciso, tra la ratio delle norme e gli ormai consolidati orientamenti di prassi e giurisprudenza, porta le imprese agricole a prestare il fianco ad accertamenti da parte dell’Amministrazione Finanziaria che, ultimamente, risulta essere sempre più attenta all’agricoltura.
In questo articolo esamineremo un caso emblematico, in cui le pronunce dei giudici, supportate da documenti di prassi, dettano un principio che pare essere contrastante con la ratio delle norme stesse: il mancato coordinamento tra la disciplina del regime speciale IVA e i riflessi fiscali del contratto di soccida.
Nello specifico, commenteremo la posizione della Cassazione che, con le Sentenze gemelle n. 11597/2007 e n. 4917/2007, ha affermato che, in tema di IVA, il regime speciale previsto per i produttori agricoli non trova applicazione per il contribuente che non esercita in proprio l’attività di allevamento del bestiame, ma che si limita ad affidare ad un allevatore, in soccida, gli animali acquistati.
Uno dei principali benefici che il legislatore ha inteso riconoscere al comparto agricolo è sicuramente rappresentato dal regime speciale IVA, disciplinato dall’articolo 34 del D.P.R. n. 633/1972; tale disciplina rappresenta, in caso di rispetto dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla norma, il regime naturale di applicazione dell’IVA per i produttori agricoli.
Il regime speciale IVA incide sulla detrazione del tributo, mentre l’imposta viene applicata mediante le aliquote ordinarie. La detrazione è stabilita in misura pari alle percentuali di compensazione che sono fissate con apposito decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze di concerto con il Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali.
Sono due i presupposti da rispettare per l’applicazione del regime IVA speciale: un presupposto oggettivo ed un presupposto soggettivo.
Sotto il profilo oggettivo, la detrazione forfetizzata può essere operata esclusivamente per le cessioni dei prodotti agricoli e ittici compresi nella prima parte della tabella A) allegata al D.P.R. n. 633/1972.
La predetta tabella contiene un elenco tassativo dei prodotti agricoli la cui cessione può rientrare nel regime speciale e prevede, in massima parte, prodotti allo stato originario (ad esempio, ortaggi e frutta) e pochi prodotti trasformati (ad esempio, olio, vino e formaggi).
Per la cessione dei prodotti presenti in tale tabella, il regime speciale è applicabile anche alla manipolazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione diretta dei propri prodotti; alla manipolazione, conservazione, trasformazione e successiva commercializzazione di prodotti acquisiti da terzi, a condizione che sia rispettato il principio della prevalenza, cioè che l’ammontare di questi ultimi prodotti non sia superiore a quelli provenienti dal proprio fondo, dalla gestione del bosco o dalla propria attività di allevamento.
I soggetti che possono accedere al regime IVA speciale, ossia i produttori agricoli, sono espressamente indicati nell’art. 34 comma 2 del D.P.R. n. 633/1972, e sono:
Come richiesto dalla norma, quindi, per poter accedere al regime speciale IVA, è necessario essere imprenditore agricolo e, quindi, esercitare una delle attività di cui all’art. 2135 del Codice Civile.
Proprio su tale aspetto si sono focalizzati i Giudici di legittimità che si sono pronunciati con le due sentenze in commento, in particolare, la Cassazione ha affermato, come poi meglio vedremo, che le agevolazioni previste dall’art. 34, comma 1, lett. a), del D.P.R. 633/1972, sono riservate ai soggetti che esercitano le attività indicate all’art. 2135 del Codice Civile.

Stando a quanto affermato dai giudici, quindi, il soccidante che affida l’allevamento dei propri animali (la cura del ciclo biologico) al soccidario, non può considerarsi un produttore agricolo, rimanendo perciò escluso dall’applicazione del regime speciale IVA.
Prima di analizzare tale pronuncia riepiloghiamo brevemente in cosa consiste il contratto di soccida e quali sono gli aspetti fiscali di tale disciplina.
La nozione di contratto di soccida è dettata dall’art. 2170 del Codice Civile. Nella soccida semplice il soccidante conferisce gli animali e i mangimi necessari per l’allevamento, mentre il soccidario (società), seguendo le direttive del soccidante, presta il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, mettendo a disposizione i locali, i terreni e le attrezzature necessarie per l’allevamento.
A fine ciclo, il soccidante ed il soccidario si ripartiscono gli utili derivanti dall’attività di allevamento, consistenti nell’accrescimento degli animali e negli altri prodotti utili che ne derivano. La ripartizione degli utili può avvenire, a scelta delle parti, secondo le seguenti modalità:
Il presupposto fondamentale affinché si tratti di contratto di soccida è la circostanza che il soccidario, che provvede ad accudire gli animali, abbia una sufficiente autonomia imprenditoriale e riceva, alla fine del ciclo, una parte di animali a titolo di accrescimento, che potrà anche essere monetizzata.
Ciò non esclude, però, che anche il soccidante partecipi al rischio di impresa. Infatti, nella soccida semplice, sia il soccidante che il soccidario partecipano all’attività di allevamento di cui si assumono i rischi in proporzione alle quote conferite. Ciò fa sì che entrambi i soggetti siano considerati soggetti passivi ai fini IVA, ai sensi di quanto previsto dall’art. 4 del D.P.R. n. 633/1972.
Come sappiamo, la soccida rappresenta oggi la forma contrattuale sulla quale si basa gran parte dell’allevamento italiano. Considerata la sua continua applicazione, tale contratto attira l’attenzione dell’Amministrazione Finanziaria impegnata, nella maggior parte dei casi, a muovere rilievi, in special modo per l’imposta sul valore aggiunto.
Dei risvolti fiscali attinenti al soccidante si sono occupate sia l’Amministrazione finanziaria, con i relativi documenti di prassi, che la Suprema Corte.
Relativamente all’imposta sul valore aggiunto, il Ministero delle Finanze, con la Risoluzione Ministeriale n. 381861 del 28 maggio 1980, si è soffermato sull’applicabilità del regime speciale di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 633/1972, chiarendo che, nel caso di allevamenti condotti in base ad un contratto di soccida, secondo le norme civilistiche, sono da ritenersi produttori agricoli sia il soccidario che il soccidante che svolga in proprio l’attività di allevatore, in quanto partecipi dell’attività stessa di allevamento di cui si assumono i rischi in proporzione alle quote conferite.
Ovviamente, secondo l’Amministrazione Finanziaria, non può usufruire del regime speciale il soccidante che, avvalendosi dei contratti associativi in questione, non disponga di un suo, benché minimo, allevamento.
In altre parole, il soccidante, per essere ritenuto imprenditore agricolo ai fini IVA, dovrebbe, in qualità di proprietario o affittuario, disporre di fabbricati rurali destinati al ricovero degli animali (stalle) e curarne al contempo l’attività di cura e sviluppo di almeno una fase essenziale del ciclo biologico degli animali stessi.
La nota ministeriale non precisa quale debba essere l’entità dell’allevamento, ma si ritiene che debba essere tale da giustificare l’esercizio di impresa. La nota non appare condivisibile, poiché il soccidante rientra, comunque, nell’ambito dell’articolo 2135 del Codice Civile, in quanto esercente l’attività di allevamento.
Nonostante ciò, pare che i principi espressi nella nota ministeriale siano stati poi recepiti e applicati anche dai Giudici di legittimità nelle due sentenze gemelle, già sopra citate, che qui di seguito commenteremo.
Con le Sentenze n. 11597/2007 e n. 4917/2007, la Corte di Cassazione si è trovata a decidere sul caso di una società che stipulava un contratto di soccida, assumendo la qualifica di soccidante. Sulle cessioni dei prodotti derivanti dall’allevamento applicava il regime speciale IVA ex art. 34 del D.P.R. n. 633/1972, riservato a coloro che svolgono le attività di cui all’art. 2135 del Codice Civile. La CTR, dapprima, e i giudici di legittimità, poi, contestavano l’applicazione di tale regime, poiché l’attività di allevamento del bestiame era svolta dal soccidario e il soccidante non aveva la disponibilità delle attrezzature e del personale all’uopo necessarie. Conseguentemente, secondo i giudici, la società soccidante non sarebbe qualificabile come imprenditore agricolo ai sensi dell’art. 2135 c.c. e, pertanto, non idonea a beneficiare dell’regime IVA speciale.
In altre parole, il soccidante, affidando l’allevamento a terzi a mezzo soccida, non avrebbe curato l'esercizio dell'attività agricola in proprio, perdendo la qualifica di imprenditore agricolo.
Sul punto, si legge nelle sentenze che “la norma fiscale [art. 34, n. 1), lettera a), del D.P.R. n. 633/1972] riferisce espressamente le agevolazioni in essa previste ai soggetti che esercitano le attività indicate dall'art. 2135 del Codice Civile ("È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali ... Per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico ...) connaturando specificamente la qualificazione di tali soggetti con riferimento all'attività svolta, il che comporta la non assoluta trasposizione delle caratteristiche civilistiche di taluni contratti agrari - come la soccida - nella normativa fiscale, la cui ratio è strettamente connessa alla condotta del soggetto agevolato”.
In buona sostanza, sul concetto di allevamento in proprio, ai fini dell’applicazione del regime speciale, la Corte di Cassazione ha espresso un principio di diritto ormai consolidato applicabile all’allevamento in generale: chi non si occupa direttamente di una fase essenziale del ciclo non può essere considerato produttore agricolo ai sensi dell'art. 34, D.P.R. n. 633/1972.
Tale principio è analogo a quello già sopra richiamato, introdotto dall’Amministrazione Finanziaria nella Risoluzione Ministeriale n. 381861/1980 e nella Circolare n. 32/1973, secondo cui il regime speciale IVA troverebbe la sua applicazione nei riguardi di entrambe le parti del contratto di soccida ma, per il soccidante, solo a condizione che lo stesso svolga già in proprio l’attività di allevamento.
Gli orientamenti qui espressi non possono certo essere condivisi. A parere di chi scrive, dal punto di vista giuridico, è corretto ritenere che l’attività di allevamento possa essere considerata come svolta in proprio anche quando il proprietario degli animali appalta a terzi la gestione del ciclo biologico tramite un contratto di soccida.
La soccida, infatti, è per definizione un contratto associativo per l’esercizio dell’attività di allevamento di cui all’art. 2135 c.c. in cui entrambi i soggetti (soccidante e soccidario) danno luogo ad un’impresa agricola associata, di cui essi sono contitolari.
Per questo motivo, è pacifico ritenere che sia al soccidante che al soccidario possa essere attribuita la qualifica di imprenditore agricolo, poiché ambedue concorrono allo svolgimento della comune impresa, anche se con ruoli diversi.
Infatti, se è vero che il soccidario è il soggetto preposto alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico dell’animale, e quindi è sicuramente inquadrabile come soggetto esercente l’attività di allevamento, è anche vero che il soccidante, con i suoi compiti direttivi e organizzativi, contribuisce all’esercizio dell’allevamento stesso.
Volendo spingerci ad estremizzare tale concetto, potremmo dire che il soccidario si avvicina più alla figura del coltivatore diretto, ossia colui che svolge direttamente e abitualmente le attività di allevamento, mentre il soccidante può essere associato alla figura dello IAP che, per definizione, è un soggetto a cui è “solamente” richiesto che dedichi la maggior parte del proprio tempo lavorativo alle attività agricole come definite dall’articolo 2135 c.c., senza richiedere espressamente l’attività manuale, ben potendo lo IAP limitarsi a compiti di natura organizzativa e manageriale.

Alla luce di quanto sinora detto, si ritiene che il principio espresso dalla Corte di Cassazione e dall’Amministrazione Finanziaria non possa ritenersi condivisibile e che il regime IVA di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 633/1972 possa essere applicato sia al soccidante che al soccidario poiché, entrambi, debbono essere qualificati come imprenditori agricoli esercenti attività di cui all’art. 2135 del Codice Civile.
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