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L’Italia è alle prese con l’applicazione della nuova Politica Comunitaria 2023 - 2027 ed ha presentato un Piano Strategico Nazionale di oltre 3.800 pagine alla Commissione UE, per l’approvazione finale, lo scorso 4 novembre 2022.
Anche la nuova Politica Comunitaria conferma la volontà di sostenere gli agricoltori, migliorando quanto già fino ad ora la PAC aveva fatto e, per questo motivo, è stata richiamata nuovamente la figura del cosiddetto “imprenditore attivo” (active farmer).
Al fine di assicurare un approccio collettivo all’interno dell’Unione Europea, il Reg. 2021/2115 definisce un quadro comune contenente alcuni elementi essenziali per l’individuazione della figura dell’”imprenditore attivo”, lasciando però ai singoli Stati membri il compito di fissare nei loro Piani Strategici tale definizione.
Secondo l’UE, vi sono le seguenti fattispecie di “agricoltore attivo”:
Il Piano Strategico Nazionale conferma la quasi totalità delle scelte sull’agricoltore attivo già esistenti attualmente: l’agricoltore attivo deve garantire un livello minimo di attività agricola consistente nello svolgimento di almeno una pratica colturale annuale per il mantenimento delle superfici agricole o per il conseguimento della produzione agricola.
Il Legislatore italiano ha considerato “agricoltori attivi” gli agricoltori che, al momento della presentazione della domanda di aiuto, risultano in possesso di anche uno solo dei seguenti requisiti:
Ciò che stupisce, è che il Legislatore italiano stia dando la possibilità di accedere alla PAC a quei soggetti che percepiscono un aiuto comunitario del primo pilastro inferiore a 5.000 euro pur non possedendo Partita IVA agricola.
Tale decisione lascia sconcertati, soprattutto se si pensa che vi sono alcune zone del nostro Paese in cui è prassi consolidata presentare domanda pro quota per nucleo famigliare, anche se nei fatti l’azienda risulta gestita da un solo componente della famiglia. Così facendo si instaurano meccanismi in grado di travalicare la corretta ed equa assegnazione degli aiuti, soprattutto per le aziende di grandi dimensioni.
Sul punto, preme precisare che sono ormai anni che è stato richiesto ad AGREA, ente pagatore per l’Emilia-Romagna, quali fossero i controlli fatti sui soggetti non possessori di Partita IVA, ma, purtroppo, non è mai stata fornita alcuna risposta.
Volendoci soffermare sulle asserzioni contenute nel Piano Strategico Nazionale in merito alla definizione di “agricoltore attivo”, attribuita a chi nell’anno precedente a quello di domanda ha ricevuto pagamenti diretti per un importo inferiore a 5.000 euro, viene detto che: “La soglia è fissata a 5.000 euro per non escludere dai pagamenti diretti le aziende agricole part-time e quelle pluriattive che non possiedono la Partita IVA attiva in campo agricolo o che, avendo un volume d’affari nel settore agricolo inferiore a 7.000 euro, non risultano iscritte al Registro delle Imprese. Tali aziende, anche se non sviluppano il volume d’affari di 7.000 euro (specie se svolgono prevalentemente un’attività agricola di mantenimento delle superfici e comunque una limitata attività agricola di produzione rivolta al mercato), assicurano una quota maggiore di SAU interessata dal sostegno al reddito e quindi soggetta alle norme di condizionalità, favorendo il mantenimento di superfici agricole marginali in buone condizioni agronomiche ambientali ed evitando l’abbandono di aziende agricole non competitive sul mercato, ma che hanno una grande importanza per la salvaguardia della biodiversità e della vitalità delle zone rurali.”
Alla luce di tali affermazioni, si deve evidenziare che entro tale soglia (5.000 euro) ricadono, attualmente, il 67% delle aziende agricole (ovvero il 28% della SAU).
Probabilmente il legislatore ha del tutto ignorato quelle che sono le disposizioni fiscali del settore primario; infatti, mentre l’iscrizione alla CCIAA non è obbligatoria per le s.s. e le ditte individuali con volume d’affari inferiore a 7.000 euro, il possesso della Partita IVA è sempre obbligatorio, tranne nei casi di puro autoconsumo o di attività hobbistica. Non si comprende, quindi, perché un’attività condotta in regime di impresa non debba avere obbligatoriamente la Partita IVA anche, e soprattutto, al fine di ottenere i contributi PAC.
Probabilmente, si dovrebbe analizzare in maniera più scrupolosa il dato delle aziende che ricadono nella soglia dei 5.000 euro. Se AGREA, ente pagatore della Regione Emilia-Romagna, dichiara di avere solo 200 casi su 40.000 fascicoli aziendali che presentano domanda unica, pari allo 0,5%, per quale ragione in altri territori deve esserci una incidenza maggiore?
Inutile ribadire che gli organismi deputati ai controlli dovrebbero provvedere a verificare in quali territori vi è una maggiore incidenza di soggetti che operano senza Partita IVA ma, purtroppo, in tutto il testo del Piano Nazionale non vi è neppure un accenno dedicato al controllo di questi soggetti.
Si ricorda, inoltre, che la strategia della PAC, con il farm to fork, era volta anche a salvaguardare la genuinità dei prodotti agricoli, e questi soggetti, che operano senza Partita IVA e senza alcuna regola, non garantiscono neppure la produzione di prodotti che rispettino certi standard di qualità.
Purtroppo, la cosa davvero grave è che, essendo tali soggetti scevri di controlli che risulterebbero onerosi per le tasche dello Stato, possono eludere i controlli amministrativi volti a verificare le tante soglie che la norma contiene.
Considerando che la torta dei sostegni comunitari è sempre la stessa, sarebbe stato auspicabile una maggiore prudenza nei confronti, in primis, di chi rispetta le regole.
Ci si chiede se non sia il caso che si creino le condizioni affinché la mano destra sappia cosa fa la sinistra, ma soprattutto che vi sia un allineamento fra i vari soggetti istituzionali per una corretta e condivisa applicazione delle norme al fine di applicare alle imprese agricole le medesime regole su tutto il territorio nazionale che, ad oggi, risultano ancora troppo radicate alla loro localizzazione geografica.