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Le polizze assicurative sulla vita possono essere considerate, oltre che nella loro peculiare funzione previdenziale (ossia di mezzo finalizzato a garantire ai superstiti dell’assicurato una certa somma al verificarsi del suo decesso), anche quale valido strumento di tutela e segregazione patrimoniale in costanza di vita dell’assicurato.
La loro efficacia ed efficienza per tali specifiche finalità deriva sicuramente sia dalla loro estrema duttilità (essendo rimessa alla libera volontà delle parti la determinazione di buona parte del loro contenuto, come infra esposto) che dalla fiscalità di favore di cui godono nel nostro ordinamento.
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 1882 e dal 1919 al 1927 c.c. (oltre che della disciplina di cui al Codice delle Assicurazioni Private di cui al D.Lgs. n. 209/2005; nel prosieguo, il “CAP”), l’assicurazione sulla vita è quel contratto con cui l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana.
Si tratta insomma di un contratto tipico, consensuale, oneroso ed a prestazioni corrispettive (avente quindi carattere c.d. sinallagmatico, in ragione del quale, le parti possono pertanto avvalersi dei rimedi di autotutela di cui alle eccezioni di inadempimento previste dagli artt. 1460 e 1461 c.c.), nel quale l’obbligazione del contraente-assicurato consiste nella corresponsione dei premi assicurativi, mentre quella dell’impresa assicurativa si sostanzia nel versamento del capitale o della rendita nei casi previsti dal relativo contratto.
In aggiunta a quanto sopra, il contratto di assicurazione sulla vita è altresì un contratto: