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Prima di addentrarci nel vivo della trattazione, è opportuno ripercorrere brevemente quali sono in concreto le incompatibilità del dipendente pubblico.
L’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001 (Testo Unico sul Pubblico Impiego) stabilisce, al riguardo, che l’impiegato pubblico non possa esercitare in modo abituale il commercio o l’industria, né svolgere professioni intellettuali né assumere impieghi alle dipendenze di società che perseguono fini di lucro.
La ratio è quella di garantire il buon andamento della Pubblica Amministrazione e l’esclusività della prestazione svolta a favore di un datore pubblico, tutelati rispettivamente dagli artt. 97 e 98 della Costituzione e di certo compromessi in caso di esercizio di una differente attività con i caratteri dell’abitualità e della professionalità.
A questa regola di carattere generale sono previste delle eccezioni.
Il dipendente pubblico, con esclusione del personale delle Forze Armate, può infatti svolgere attività secondaria, previa autorizzazione rilasciata dall’ente pubblico presso cui opera, purché l’ulteriore impiego non sottragga tempo all’esercizio proficuo delle funzioni pubbliche e non rientri nei lavori che sono, per legge, vietati ai soggetti impiegati nella Pubblica Amministrazione.
Quanto all’attività agricola, seppur non sia esplicitamente indicata tra le attività vietate per il dipendente pubblico, occorre tenere nella dovuta considerazione la sua evoluzione storica, potendo la stessa essere esercitata ora anche in forma societaria. Ne consegue che l’attività agricola in forma societaria vada inquadrata nella più ampia categoria dell’attività esercitata attraverso una stabile struttura societaria di tipo commerciale e che, in quanto tale, rientri tra i lavori incompatibili con il pubblico impiego.
Ciò premesso, la Cassazione, con la recente Ordinanza n. 27420/2020, ha pertanto stabilito che lo svolgimento da parte del dipendente pubblico di un’attività agricola esercitata in forma societaria sia incompatibile con l’assunzione di un incarico pubblico all’interno di un ente locale. Ciò in quanto questa tipologia di attività agricola si presume abbia i caratteri dell’abitualità.
Del resto, il carattere dell’abitualità è indirettamente ricavabile dalla stessa definizione di imprenditore agricolo professionale di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004, inteso come quel soggetto che dedica alle attività agricole ex art. 2135 c.c., direttamente o in qualità di socio, almeno il 50% del proprio tempo complessivo di lavoro per ricavarci almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro.
Nella medesima Ordinanza sopra citata la Cassazione precisa inoltre che, ai fini della configurazione dell’incompatibilità rispetto al pubblico impiego, non rilevi il criterio della remunerazione bensì la “sussistenza di un centro di interessi alternativo all’ufficio pubblico rivestito implicante un’attività che, in quanto caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, pregiudicando il rispetto del dovere di esclusività, potrebbe turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della PA”.
Deroga al divieto di svolgimento di un’attività agricola con i caratteri della professionalità è prevista per il dipendente pubblico part-time, la cui prestazione di lavoro non deve superare il 50% di quella richiesta all’impiegato pubblico full-time.
In conclusione, un impiegato pubblico full-time non può, al tempo stesso, rivestire la carica di socio o di amministratore all’interno di un’azienda agricola, posto che tale attività secondaria è caratterizzata da abitualità e professionalità e, pertanto, è incompatibile con l’esercizio di un incarico pubblico e con la necessità di garantire l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Stefania Avoni, avvocato