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Quando una società viene posta in liquidazione, i liquidatori sono tenuti a compiere unicamente le operazioni necessarie per procedere al soddisfo dei creditori e alla distribuzione dell’eventuale residuo attivo fra i soci.
Ne consegue che siano vietate quelle attività che comportino per l’impresa un nuovo rischio senza alcuna garanzia di profitto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2279 c.c. Possono essere, invece, espletate quelle attività concernenti la definizione dei rapporti sostanziali preesistenti alla messa in liquidazione della società.
La stessa giurisprudenza di legittimità, già in passato, ha precisato come “la società regolarmente sciolta continua a sopravvivere come soggetto collettivo, pur dopo la messa in liquidazione, all’unico scopo di liquidare i risultati della cessata attività sociale, sicché non è consentito ai liquidatori, a norma degli art. 2278 e 2279 c.c., intraprendere nuove operazioni, intendendosi per tali quelle che non si giustificano con lo scopo di liquidazione o di definizione dei rapporti in corso, e che costituiscono, viceversa, atti di gestione dell’impresa sociale (…) inefficaci per carenza di potere.” (Cass. Civile, n. 1037/1999).
In applicazione della sopra richiamata disposizione normativa, nel caso particolare in cui ad essere in liquidazione sia una società agricola, sono ammesse unicamente le attività agricole e quelle alle stesse connesse ex art. 2135, terzo comma, c.c., in quanto trattasi di operazioni finalizzate alla salvaguardia dell’azienda.
Lo svolgimento di un’attività commerciale, del tutto avulsa da quella agricola dismessa, implica, al contrario, l’assunzione di un rischio di impresa esorbitante rispetto al potere conferito ai liquidatori, in forza del quale l’imprenditore agricolo non è più esente dal fallimento.
Detto in altri e più chiari termini, l’esenzione dal fallimento dell’imprenditore agricolo viene meno quando le attività connesse dal medesimo esercitate non siano funzionalmente collegate con la terra oppure siano svolte in modo prevalente rispetto all’attività agricola principale di coltivazione del fondo, di selvicoltura o di allevamento di animali.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione che, con la Sentenza del 22 ottobre 2019, n. 28984, si è pronunciata circa la corretta configurazione dell’attività di intermediazione di talee svolta da una società agricola in liquidazione, che, per questo motivo, era stata dichiarata fallita dal Giudice di primo grado con pronuncia poi confermata in sede di Appello.
In quell’occasione, gli Ermellini hanno statuito che l’attività di intermediazione di ingenti quantità di piante con fatturazione in proprio configurava per la società agricola in liquidazione l’assunzione di un rischio di impresa autonomo rispetto al fine ultimo della procedura di liquidazione.
La specifica operazione di intermediazione nella vendita di talee costituiva inoltre un’attività commerciale a carattere non occasionale, come si evinceva dalla spendita del nome dell’imprenditore agricolo tramite abituale utilizzo della propria Partita IVA ai fini della fatturazione.
In conclusione, l’imprenditore agricolo, laddove sia provato che svolga attività commerciale senza osservanza dei limiti di cui al terzo comma dell’art. 2135 c.c., vale a dire come attività principale e non connessa a quella agricola, può incorrere nel fallimento.
Per un approfondimento della tematica relativa al fallimento dell’imprenditore agricolo si rimanda alla lettura della circolare “Anche l’impresa agricola può fallire”.
Stefania Avoni, avvocato