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È oramai trascorso un mese da quando il Gestore dei Servizi Energetici (GSE), in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 15-bis del D.L. n. 4/2022, ha provveduto ad ultimare i conteggi e (senza comprendere a quale titolo) ad emettere fatture nei confronti dei produttori di energia da fonti rinnovabili per addebitare il maggior prezzo riconosciuto al costo dell’energia dal 1° febbraio 2022, oltre i limiti fissati con il medesimo decreto.
Ricordiamo che l’art. 15-bis del D.L. n. 4/2022 ha introdotto un meccanismo, cosiddetto a due vie, in base al quale, in relazione all’energia elettrica immessa in rete
il GSE avrebbe dovuto procedere al calcolo della differenza dei corrispettivi di vendita dal 1° febbraio 2022 sulla base dei nuovi valori, in applicazione dei criteri indicati al punto 3 del medesimo articolo.
In base alla novella disposizione, qualora il ricalcolo avesse determinato maggiori ricavi per il produttore, il GSE avrebbe dovuto erogargli i maggiori importi; invece, qualora la differenza fosse risultata negativa per il produttore, il GSE “conguaglia o provvede a richiedere al produttore l’importo corrispondente”.
Come già evidenziato in altre nostre circolari, tralasciando le perplessità sollevate circa la costituzionalità del provvedimento, vogliamo soffermarci sulla scelta unilaterale del GSE di emettere fattura nei confronti dei produttori e, in particolar modo, sugli effetti che tale fattura determina in capo ai produttori agricoli.
Il primo ordine di problemi sta nel fatto che se, come pare dal tenore letterale della norma, l’art. 15-bis incide sul prezzo dell’energia prodotta e già fattura dai produttori, dovrebbe trovare applicazione l’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972. Dunque, spettava ai produttori emettere la nota di credito per la rettifica del prezzo.
Il GSE ha inoltre provveduto ad emettere fattura in reverse charge, ai sensi dell’art. 17 del Decreto IVA, probabilmente senza valutare che il comma 6, lett. d-quater), consente tale modalità “alle cessioni di energia elettrica ad un soggetto passivo-rivenditore ai sensi dell’art. 7-bis, comma 3, lettera a)”. Pertanto, non è giustificata la predetta modalità nei confronti di soggetti, come le imprese agricole, che sono esclusivamente dei produttori e non anche dei rivenditori.
Ma non è tutto. L’unilaterale scelta del GSE di provvedere egli stesso all’emissione di una fattura, con l’applicazione del reverse charge, genera due ordini di problemi alle imprese agricole.
Nell’immediato, volendo considerare legittima la fattura ricevuta dal GSE, si deve procedere alla cosiddetta inversione contabile disposta dal comma 5 dell’art. 17, D.P.R. n. 633/1972 e, pertanto, sarà onere dell’impresa che riceve la fattura integrarla con l’aliquota IVA e la relativa imposta, annotarla nei registri delle operazioni attive entro la fine del mese in cui il documento è stato ricevuto o, comunque, entro quindici giorni dal suo ricevimento. A tal fine, riteniamo che l’aliquota IVA applicabile sia quella del 10% in base alla definizione fornita al punto 103) della Tabella A, Parte terza, D.P.R. n. 633/1972.
Sulla base del tenore letterale della disposizione, il meccanismo a due vie non è qualificabile come “tassazione” ma, come confermato dalla descrizione che il GSE ha esposto in fattura, “rettifica del prezzo cessione energia”, riteniamo debba essere inquadrato come una diminuzione dei ricavi per le aziende produttrici.
Ciò induce, conseguentemente, ad una riflessione sugli effetti che la fattura, ricevuta dai produttori, determina ai fini delle loro imposte sul reddito. A nostro avviso vi è un problema di cui il GSE non ha minimamente tenuto conto, dato dal fatto che sovente le imprese agricole che producono energia elettrica, per la quota di produzione eccedente i 260.000 kWh annui, determinano il proprio reddito forfettariamente ai sensi del comma 423 dell’art. 1, Legge n. 266/2005. Tale disposizione prevede che oltre tale soglia: “il reddito delle persone fisiche, delle società semplici e degli altri soggetti di cui all'articolo 1, comma 1093, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, è determinato, ai fini IRPEF ed IRES, applicando all'ammontare dei corrispettivi delle operazioni soggette a registrazione agli effetti dell'imposta sul valore aggiunto, relativamente alla componente riconducibile alla valorizzazione dell'energia ceduta, con esclusione della quota incentivo, il coefficiente di redditività del 25%, fatta salva l'opzione per la determinazione del reddito nei modi ordinari.”.
Nel caso di specie è del tutto evidente che l’applicazione del suddetto regime forfettario non consente la deduzione di alcun costo specifico, che nella circostanza è rappresentato dalla fattura ricevuta dal GSE. Applicando la disposizione alla lettera, le imprese agricole dovrebbero determinare il proprio reddito basandosi su corrispettivi falsati, in quanto, non avendo emesso nota di credito, dagli stessi non è stato dedotto il ricalcolo del prezzo operato dal GSE.
Tale problematica non si riverbera sui soggetti che determinano il reddito in modo analitico, dato che questi ultimi deducono dai ricavi i costi ad essi afferenti, compresa, pertanto, la fattura di acquisto ricevuta dal GSE.
L’operato “poco ortodosso” posto in essere dal GSE, scardinando alcune delle regole base del nostro sistema fiscale e tributario, determina degli effetti anomali e preoccupanti, specie per le imprese agricole, la cui gestione merita un urgente intervento chiarificatore dell’Amministrazione Finanziaria.