Articoli
Tutti gli aggiornamenti, gli approfondimenti e i casi pratici analizzati e realizzati dai nostri esperti in materia agricola, fiscale, economica e del lavoro.
In vista della Riforma fiscale che il Governo intende attuare, tra le attività che meriterebbero un approfondimento riteniamo che quella dell’allevamento, visto il fatturato diretto e del relativo indotto nonché l’importanza nell’export nazionale, presenti alcune criticità.
La necessità di garantire il benessere animale e la prevenzione della diffusione di pericolosi focolai di virus pestosi, come ad esempio l’aviaria o la Peste Suina Africana, impone alle imprese di allevamento di implementare gli investimenti, specialmente sulle strutture e sugli impianti.
Il rispetto di nuovi e ambiziosi standard sanitari, non derogabili, ha notevolmente appesantito i bilanci degli allevatori.
Nel nostro Paese l’attività di allevamento è spesso basata su contratti di soccida. Tale contratto associativo, disciplinato dall’art. 2170 e seguenti del Codice Civile, prevede che il soccidante ed il soccidario si associno per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l’accrescimento degli animali e gli altri prodotti ed utili che ne derivano.
Tali contratti consentono all’allevatore di operare all’interno di una filiera, richiedendo il rispetto di determinati standard produttivi, come, ad esempio, la riduzione dell’utilizzo di farmaci ed antibiotici. Al contempo, con il contratto di soccida oggi si garantisce che le produzioni oggetto dell’attività di allevamento trovino uno sbocco sul mercato. Infatti, molto spesso il soccidante è direttamente collegato con l’industria di trasformazione. Per tale ragione, in genere, il soccidante ritira l’intera produzione derivante dal contratto associativo, liquidando il soccidario per la quota di accrescimenti a lui dovuti con una somma di denaro.
Il Ministero, con la Circolare n. 32/1973 e con la Circolare 48/E del 9 febbraio 1995, ha sostenuto che l’assegnazione degli animali effettuata a fine ciclo dal soccidante al soccidario è un’operazione dichiarativa e, pertanto, esclusa da IVA. Tuttavia, anche in relazione alle successive cessioni dei medesimi “beni” ripartiti tra le parti, sia il soccidante che il soccidario possono beneficiare della detrazione IVA prevista dall’art. 19, D.P.R. n. 633/1972.
Qualora la quota di frutti spettanti al soccidario sia liquidata dal soccidante con l'equivalente in denaro, tale somma non dovrebbe considerarsi soggetta ad IVA in quanto, in tal caso, il soccidante non fa altro che anticipare al soccidario la quota di frutti ad esso spettante quale ripartizione proporzionale del prezzo ricavato dalla successiva vendita, effettuata dal soccidante stesso, di tutti i frutti della soccida (Risoluzione Ministeriale n. 504929/1973). In tale ipotesi, avendo il soccidario percepito una sola quota di denaro a titolo di corresponsione della quota di accrescimento, senza aver dunque generato alcuna cessione imponibile ai fini IVA, non ha diritto alla detrazione sugli acquisti afferenti l’attività di allevamento, nonostante sia colui che materialmente ha svolto l’attività di allevamento e ha sostenuto una parte delle relative spese (Cassazione Ordinanze nn. 21491/2005 e 27715/2013).
In questo caso occorre rilevare che l’intera produzione successivamente ceduta dal soccidante è soggetta ad IVA. Quindi avremo che il soccidante rileva nella propria IVA debito anche l’imposta relativa al prodotto ottenuto tramite l’attività svolta dal soccidario, al quale è però negato detrarsi l’IVA. In pratica, a fronte di un’attività associata che determina una cessione di beni soggetta ad IVA, ad una delle parti viene negata la detrazione dell’imposta relativa agli acquisti. In questo caso, pertanto, per il soccidante l’IVA non rimane un’imposta neutrale.