Nel nostro Paese l’attività di allevamento si fonda, in molti casi, su contratti di soccida e, vista la rilevanza economica di questo comparto, anche i controlli dell’Amministrazione Finanziaria si sono intensificati su questa tipologia di accordi.
Il contratto di soccida è un contratto associativo, regolato dall’articolo 2170, Codice Civile, nel quale è espressa la seguente nozione: “Nella soccida il soccidante e il soccidario si associano per l'allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l'esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l'accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano”.
Il fatto che si tratti di un contratto associativo, ove ognuna delle parti è dotata di una propria autonomia imprenditoriale e soggetta al rischio d’impresa, comporta che entrambe le parti, soccidante e soccidario, siano degli imprenditori in quanto esercitano un’attività di impresa e, più precisamente, un’attività agricola diretta alla cura ed allo sviluppo di almeno una fase del ciclo biologico degli animali oggetto del contratto. Come imprenditori agricoli, sia il soccidario che il soccidante, anche ai fini fiscali, devono poter beneficiare delle stesse disposizioni che sarebbero loro applicabili qualora gestissero in proprio un’attività di allevamento.
In particolare, le imprese del settore agricolo, in alternativa all’applicazione del regime speciale IVA (di cui all’art. 34, D.P.R. n. 633/1972), possono optare per l’applicazione del regime IVA normale. Tale opzione è solitamente attivata quando l’impresa deve effettuare degli investimenti, oppure quando rileva che, mediamente, l’IVA assolta sugli acquisiti è maggiore di quella relativa alle vendite (in questa ipotesi, pertanto, per l’allevatore il regime naturale riservato all’agricoltura risulterebbe penalizzante).
Il caso sottoposto al vaglio dei Giudici di legittimità
Ad un allevatore che svolgeva attività di allevamento in qualità di soccidario, veniva disconosciuto il rimborso dell’IVA sugli acquisti di beni strumentali all’esercizio dell’attività di allevamento in soccida.
Secondo la Commissione Tributaria Regionale, in particolare, al soccidario non poteva essere riconosciuta la soggettività IVA in quanto la commercializzazione del prodotto era effettuata solo dal soccidante. La CTR motivava il proprio giudizio per il fatto che il soccidario si sarebbe limitato a fruire degli utili per il quale il contratto di soccida aveva stabilito, quale modalità esclusiva di ripartizione, la monetizzazione della quota di riparto al soccidario.
Nel caso di specie, il soccidario aveva regolarmente fatturato al soccidante la quota dei prodotti di propria spettanza, con separata annotazione dell’IVA dovuta in rivalsa. Il soccidario aveva quindi, di fatto, posto in essere delle operazioni imponibili, senza che potesse aver alcun rilievo il fatto che la cessione fosse avvenuta nei confronti del soccidante.
Le motivazioni della Corte di Cassazione
I Giudici di legittimità hanno innanzitutto chiarito che, nel contratto di soccida, entrambi i soggetti coinvolti sono imprenditori agricoli. A tal fine hanno richiamato l'Ordinanza n. 987 del 14 gennaio 2022, nella quale è stato precisato che: “la circostanza che l'attività di allevamento viene svolta mediante il contratto di soccida semplice comporta che la stessa è da considerarsi una attività agricola, come si desume sia dalla sedes materiae (essendo il contratto di soccida inserito tra i contratti tipici agrari) che dalla espressa formulazione dell'art. 2170, Cod. Civ., secondo cui nella soccida il soccidante ed il soccidario «si associano per l'allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame», che, infine, dall'interpretazione sistematica, atteso che al soccidante è riconosciuta la direzione dell'impresa, quindi partecipa del rischio di impresa, al pari del soccidario» sicché «gli stessi sono contitolari dell'impresa di allevamento e, quindi, sono entrambi imprenditori agricoli: il dato normativo, invero, attribuisce ad entrambi lo status di contitolari dell'impresa posto che, come detto, per il tramite del contratto di soccida, l'impresa è svolta congiuntamente dal soccidante e dal soccidario, sia pure con obbligazioni diverse».
Pertanto, come imprenditori agricoli, il soccidante ed il soccidario possono avvalersi del regime speciale di detrazione dell'IVA di cui all'art. 34, D.P.R. n. 633/1972, per le operazioni compiute verso terzi. A maggior ragione, sia il soccidante che il soccidario possono optare per l’applicazione del regime normale e portare in detrazione l’IVA relativa agli acquisti di beni strumentali per l’esercizio dell’attività e, ricorrendone i presupposti di legge, chiedere il rimborso del credito IVA medesimo.
In definitiva, secondo i Giudici, il fatto che l’accordo interno prevedesse la monetizzazione al soccidario dei rispettivi accrescimenti rappresenta un elemento non pertinente ai fini della qualificazione dell’attività del soccidario. (Cassazione Civile, Ordinanza n. 15764/2023).
Infatti, i Giudici hanno evidenziato che “contrariamente a quanto affermato dalla CTR, non assume rilievo la circostanza per cui, in forza del contratto di soccida, sia prevista la monetizzazione della percentuale di accrescimento spettante al soccidario posto che tale profilo attiene ai rapporti interni tra gli associati e non all’attività d’impresa agricola, sicché essa integra un indice estraneo e non pertinente ai fini della qualificazione dell’attività del soccidario”.
Prendiamo atto del pronunciamento e ne condividiamo i contenuti. Tuttavia, occorre segnalare come l’apertura contenuta nell’Ordinanza in commento perderebbe di significato se i principi di diritto espressi dai Giudici di legittimità non fossero supportati anche dai comportamenti delle parti, in grado di confermare che i prodotti (animali o utilità) sono stati effettivamente venduti dal soccidario. A tal proposito rivestono fondamentale importanza i DDT e le relative fatture di vendita emessi dal soccidario.
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