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Con Sentenza n. 32977 del 28 novembre 2023, la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi sulla fallibilità dell’impresa agricola esercitata in forma societaria, precisando, ai fini dell’assoggettamento alla procedura concorsuale, che la qualifica di un’attività d’impresa come commerciale o agricola deve operarsi secondo le norme del Codice Civile e della legge fallimentare, senza che assumano alcuna rilevanza le norme statali o comunitarie di settore, ad esempio fiscali e contributive, che attribuiscono all’attività una titolazione di impresa agricola insuscettibile di generale applicazione.
Con Sentenza del 7 maggio 2020, la Corte di appello di Napoli ha rigettato il reclamo proposto da una società agricola a responsabilità limitata avverso una sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere che ne aveva dichiarato il fallimento, avendo ritenuto che la società agricola non avesse svolto solo l'attività di silvicoltura, ma anche le attività tipiche di una società immobiliare, peraltro in misura prevalente rispetto alle attività agricole e connesse.
La Corte di Merito, dopo avere richiamato la previsione contenuta nell'art. 2, D.Lgs. n. 99/2004 che, oltre ad affiancare alla nozione di “imprenditore agricolo” quella di “società agricola”, ha previsto che non costituiscano distrazione dall'esercizio esclusivo dell'attività agricola la locazione, il comodato e l'affitto di fabbricati e terreni strumentali, sempreché i ricavi siano marginali rispetto a quelli derivanti dall'attività agricola esercitata (10% dei ricavi complessivi), ha evidenziato che la società agricola ricorrente aveva destinato a terzi il godimento di propri terreni e fabbricati in misura non marginale ma assolutamente prevalente, tale da produrre redditi superiori al 10% dei ricavi complessivi maturati dalla stessa società agricola.
La società ha peraltro svolto la mera gestione a fini reddituali di estese superfici di terreni destinati ad attività agricole e dei fabbricati di ragguardevoli dimensioni su di essi insistenti, esercitando dunque un’attività di carattere immobiliare, palesemente priva del carattere della connessione con quella della silvicoltura.
La società agricola ha quindi proposto ricorso per cassazione, evidenziando che l'art. 2, D.Lgs. n. 99/2004, costituisce una norma di carattere fiscale, che non ha introdotto la nuova categoria dell'imprenditore agricolo costituito in forma societaria.
Conseguentemente, qualora l'imprenditore agricolo in forma societaria abbia svolto attività di locazione, comodato e affitto di fabbricati ad uso abitativo e di terreni, il superamento del requisito della marginalità (ricavi derivanti da tali attività superiori al 10% di quelli complessivi) dovrebbe comportare il venir meno del regime fiscale agevolato previsto dal TUIR, ma non la perdita della qualifica di società agricola.
Inoltre, lo svolgimento dell'attività di affitto di fondi rustici e la riscossione dei relativi canoni di locazione non costituisce attività di impresa e non è dunque idonea ad attribuire al soggetto che la svolge la qualità di imprenditore commerciale.
La Corte di Cassazione ha accolto le tesi avanzate dalla società ricorrente, rinviando la causa alla Corte di appello di Napoli.
Nel definire l'ambito di applicazione dell'art. 2, D.Lgs. n. 99/2004, e la sua incidenza sul tema della fallibilità o meno della società agricola, i Giudici di legittimità hanno osservato che il riferimento al superamento della soglia del 10% dei ricavi ed alla strumentalità degli immobili assume rilievo ai fini della distrazione dall'esercizio esclusivo delle attività agricole, costituendo dunque un concetto che non pare ricollegabile ai profili collegati alla fallibilità della società agricola, quanto piuttosto all'estensione del regime fiscale agevolato.
Tale interpretazione è coerente con il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della soggezione al fallimento, la qualifica di un'attività d'impresa come commerciale o agricola deve operarsi secondo le norme del Codice Civile e della legge fallimentare, senza alcuna rilevanza delle norme statali o comunitarie di settore (ad esempio, fiscali o contributive) che, proprio perché settoriali e dunque rispondenti alle particolari finalità dei rispettivi ordinamenti, attribuiscono alla stessa attività una titolazione di impresa agricola insuscettibile di generale applicazione.
In buona sostanza, l'art. 2, D.Lgs. n. 99/2004, integra una disciplina di carattere fiscale che non rileva ai fini della individuazione dei requisiti da valutare per accertare la fallibilità o meno di una società agricola.
In relazione all'attività di affitto di fondi rustici e alla riscossione dei relativi canoni di locazione, la Corte di Cassazione ha innanzitutto evidenziato che lo svolgimento di un'attività agricola unitamente ad un'attività avente carattere commerciale non pone al riparo la società agricola dal fallimento, specie se l’attività commerciale è svolta in misura prevalente rispetto a quella agricola.
L'esonero dall'assoggettamento alla procedura fallimentare delle società agricole non può quindi ritenersi incondizionato, venendo meno quando sia insussistente, di fatto, il collegamento funzionale con il “ciclo biologico”, inteso come fattore produttivo, o quando le attività connesse di cui all'art. 2135, Codice Civile, assumono rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, ovvero quando risulti accertato in sede di merito che l'impresa agricola costituita in forma societaria abbia esercitato in concreto attività commerciale, in misura prevalente sull'attività agricola contemplata in via esclusiva dall'oggetto sociale.
Nel caso di specie, ancorché la componente di riscossione dei canoni da parte della società sia stata assolutamente preponderante rispetto all’attività agricola, occorre tuttavia considerare che l'attività di locazione non può, di per sé, integrare lo svolgimento di un’attività connessa di natura commerciale di cui all’art. 2135, comma 3, Codice Civile.
Infatti, ai fini dell'assoggettabilità della società agricola al fallimento, l'attività di mera riscossione dei canoni di un immobile affittato non costituisce, in genere, attività d'impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società commerciale, salvo che si dia prova che costituisca attività commerciale di intermediazione immobiliare e che si risolva nella messa a reddito professionale e organizzata di beni immobili, secondo lo schema del contratto di locazione.
In mancanza di un corretto accertamento in concreto dell’effettivo svolgimento di un'attività commerciale prevalente sull'attività agricola che avrebbe consentito la dichiarazione di fallimento stante la incontestata previsione statutaria di società agricola, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato anche questo motivo di ricorso.