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In passato, la giurisprudenza si era interrogata circa la possibilità di estendere le tutele apprestate dall’art. 230-bis c.c. anche alla famiglia di fatto e, nello specifico, al convivente more uxorio che svolga la propria attività all’interno dell’impresa familiare.
Sul punto, la Cassazione ha sempre negato al convivente more uxorio del titolare dell’impresa familiare l’applicazione analogica dell’art. 230-bis c.c., in ragione del carattere eccezionale di questa disposizione normativa che, nell’elencare tassativamente quali siano i soggetti che possono rivestire la qualifica di collaboratori familiari, non contempla il convivente.
Per la giurisprudenza di legittimità[1] il concetto di “familiare” non può che riguardare “[…] la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti”, così che “[…] un'equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum”.
Sulla base di quanto sopra espresso, il convivente more uxorio potrebbe lavorare per l’impresa familiare solo in qualità di lavoratore autonomo o subordinato, oppure quale lavoratore occasionale.
Tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà), che ha regolamentato per la prima volta alcuni profili delle convivenze c.d. di fatto, è stato introdotto nel Codice Civile l’art. 230-ter, rubricato “Diritti del convivente”, con cui vengono riconosciuti alcuni diritti patrimoniali al convivente more uxorio che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa del partner.
Prima di soffermarsi sull’analisi dell’art. 230-ter c.c., è importante innanzitutto precisare che tale disposizione normativa, richiamandosi all’art. 1, comma 36, della Legge n. 76/2016, che definisce conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, fa riferimento unicamente al convivente di fatto unito da un legame affettivo stabile con il soggetto a favore della cui impresa apporta lavoro.
In secondo luogo, per il convivente more uxorio l’art. 230-ter c.c. prevede che la collaborazione sia prestata in modo stabile, essendo quindi necessario un quid pluris rispetto al requisito della continuità richiesto invece dall’art. 230-bis c.c. A tal fine, per stabilità deve intendersi l’inserimento duraturo all’interno dell’organizzazione aziendale.
Occorre infine che il convivente di fatto, diversamente da quanto accade per il collaboratore familiare, apporti il proprio lavoro solo nell’impresa familiare e non anche all’interno della famiglia, ancorché finalizzato all’attività di impresa.
Sono invece sprovvisti della copertura accordata dall’art. 230-ter c.c. i familiari del convivente more uxorio, non rivestendo lo status di affini del convivente imprenditore.
Ciò premesso, la Legge Cirinnà non accorda tout court al convivente di fatto la stessa tutela prevista per i collaboratori familiari dall’art. 230-bis c.c.
Ne consegue che la posizione del coniuge non possa essere parificata a quella del convivente more uxorio.
Al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell’impresa familiare è infatti riconosciuta unicamente una partecipazione ai relativi utili, ai beni acquistati con gli stessi, oltre che agli incrementi aziendali, anche in relazione all’avviamento, da commisurarsi al lavoro prestato.
La necessità che la partecipazione agli utili sia commisurata al lavoro prestato impone poi l’utilizzo di criteri più restrittivi rispetto a quelli applicati dall’art. 230-bis c.c. per determinare la quota parte di utili spettante a ciascun collaboratore familiare, in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato.
Il convivente di fatto non ha invece il diritto a partecipare alle decisioni straordinarie, il diritto al mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia, ed il diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda o di divisione ereditaria.
Ad ulteriore dimostrazione dell’intento del Legislatore di differenziare le due fattispecie, contemplate rispettivamente dagli artt. 230-bis e 230-ter c.c., è la Circolare dell’INPS n. 66/2017 del 31 marzo 2017 che non prevede per il convivente di fatto gli stessi diritti ed obblighi di copertura previdenziale previsti per il collaboratore familiare.
Nel dettaglio, la Circolare sopra richiamata sancisce espressamente che “(…) il convivente di fatto, non avendo lo stesso status di perente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare dell’impresa, non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare. Le sue prestazioni saranno quindi valutabili, in base alle disposizioni vigenti ed alle elaborazioni giurisprudenziali, al fine di individuare la tipologia di attività lavorativa che si adatti al caso concreto.”
Quanto infine alla normativa tributaria, è opportuno chiarire se al convivente di fatto possano applicarsi gli stessi vantaggi fiscali propri dei collaboratori familiari, consistenti nella ripartizione del reddito di impresa nel limite del 49% dell’importo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, dovendo il restante 51% essere imputato a quest’ultimo.
Ciò in quanto l’art. 5, comma 4, del TUIR, dal momento che richiama soltanto l’art. 230-bis c.c., sembrerebbe non trovare applicazione in riferimento all’art. 230-ter c.c.
La questione è stata definitivamente risolta dalla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 134/E del 26 ottobre 2017, secondo cui l’art. 5, comma 4, del TUIR si applica anche al convivente di fatto, in quanto il reddito a lui spettante deriva dalla sua partecipazione agli utili espressamente riconosciuta dall’art. 230-ter c.c. Ne deriva che anche al convivente di fatto il reddito di impresa dev’essere imputato in proporzione alla sua quota parte di partecipazione agli utili.
In conclusione, l’art. 230-ter c.c. configura una particolare forma di compartecipazione all’interno dell’impresa familiare tra il suo titolare ed il convivente dell’imprenditore.
Se sul piano fiscale al convivente di fatto vengono estesi gli stessi vantaggi fiscali attribuiti al collaboratore familiare, rispetto a quest’ultimo, a livello civilistico gli sono accordati meno diritti, non potendo l’art. 230-bis c.c. trovare applicazione analogica per il suo carattere di specialità.
Al tempo stesso occorre ricordare che il convivente di fatto, diversamente dal collaboratore familiare, non è tenuto all’iscrizione previdenziale ed ai corrispondenti obblighi contributivi, mancando una disposizione in tal senso.
L’art. 230-bis c.c. e l’art. 230-ter c.c. disciplinano infatti due diverse tipologie di partecipazione all’impresa familiare, con conseguente attribuzione di diritti differenti. Se così non fosse, al Legislatore sarebbe bastato inserire all’interno dei soggetti a cui il terzo comma dell’art. 230-bis c.c. accorda la qualifica di collaboratori familiari anche il convivente more uxorio.
Avv. Stefania Avoni
[1] Cass. Civile, 29 novembre 2004, n. 22405.