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Negli ultimi mesi, il tema dell’origine dei prodotti sta diventando un argomento sempre più sentito da parte degli operatori del settore agroalimentare. Non a caso, infatti, la materia è stata spesso oggetto di lavori sia in Parlamento che presso i Ministeri.
L’ultima notizia, di pochi giorni fa, è che si starebbe discutendo della possibilità di tornare ad indicare in etichetta la sede dello stabilimento di produzione dei prodotti trasformati e preimballati ed eventualmente, se diversa, anche la sede di confezionamento degli stessi.
Di fatto, l’ipotesi in discussione in Parlamento riporterebbe la disciplina indietro di qualche anno, ripristinando l’obbligo di indicazione della sede di produzione, così come avveniva prima del riordino della normativa UE in materia di etichettatura, riordino che ha sancito l’abrogazione della legge italiana.
Come detto, negli ultimi mesi, il tema delle etichette è stato spesso centrale. Si è partiti a dicembre 2016, con l’approvazione del DM 9 dicembre 2016 che ha sancito l’obbligo di indicazione della provenienza del latte, anche quando trasformato in formaggi o altri derivati.
È di qualche settimana fa, invece, la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (la n. 190 del 16/8/2017) di due decreti interministeriali che hanno definito le modalità di indicazione in etichetta della provenienza di riso e grano duro, introducendo una sperimentazione normativa di due anni.
La disciplina è molto simile a quella prevista per i prodotti lattiero-caseari: per grano e pasta, le confezioni di pasta prodotte in Italia dovranno indicare, il Paese di coltivazione del grano e il Paese di molitura, ossia quello in cui il grano è stato macinato.
Per quanto riguarda il risoil riso, invece, tre sono le indicazioni che devono essere riportate in etichetta: Paese di coltivazione, Paese di lavorazione e Paese di confezionamento.
Se tutte le fasi avvengono in Italia, è possibile utilizzare la dicitura “Origine: Italia”. Alternativamente, se tali fasi avvengono in altri Stati, bisognerà utilizzare le indicazioni “Paesi UE”, “Paesi UE” e “Paesi UE e non UE”.
La grande attenzione che viene oggi messa sulle etichette dei prodotti agroalimentari può intendersi in modi diversi: da un lato, è ormai sempre più importante il desiderio di trasparenza da parte dei consumatori finali, i quali vogliono essere (giustamente) consapevoli della provenienza e della qualità dei prodotti che consumano.
Ancora più decisiva, però, pare la volontà di dare una decisiva spinta ai prodotti italiani e di renderli conoscibili e distinguibili nel mondo sia nella qualità che nell’etichetta.
A ben vedere, la scelta di agganciare il settore agroalimentare al vagone del “Made in Italy” (che si stima sia il terzo brand per reputazione al mondo dopo Coca Cola e Visa) potrebbe rivelarsi una soluzione utile a risollevare un settore in difficoltà e a rilanciarne i prodotti sul mercato.
Pur riconoscendo le interessanti dinamiche che le nuove previsioni normative potrebbero andare a generare, occorre non farsi illusioni. Non è infatti sufficiente indicare l’origine dei prodotti per far moltiplicare i ricavi dei produttori agricoli.
Per fare il salto di qualità, è necessario in primis che le aziende di trasformazione mantengano alti gli standard produttivi, al fine di fornire un prodotto finito di alto livello e che possa incontrare il gusto dei consumatori.
Altrettanto e forse ancora più importante, per gli operatori del settore, è fare squadra. Solo tramite una filiera forte ed organizzata, infatti, è possibile resistere contro le mille insidie del mercato: per mezzo di collaborazioni, accordi chiari, regole precise e contratti di lunga durata (almeno cinque anni), produttori, industrie di trasformazione e distribuzione potranno fare, insieme, il salto di qualità.
Quindi ben venga l’indicazione dell’origine in etichetta, ma questo è solo un primo passo: tocca quindi agli agricoltori e agli altri operatori dell’agroalimentare approfittare di questa nuova chance e spiccare il volo.