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La Rivista | nº 05 Maggio 2020


Del maiale non si butta via niente…si spera

di Luciano Mattarelli, direttore responsabile

Mentre l’emergenza sanitaria, seppur lentamente, inizia pian piano a sfumarsi, ora l’Italia deve iniziare a fare i conti con un'altra emergenza, quella economica, che inizia a emergere con sempre maggiore chiarezza all’orizzonte.

Durante i mesi del lockdown, tanti comparti produttivi hanno subito consistenti perdite e ciò vale anche, purtroppo, per il settore dell’agricoltura. Se, però, i problemi di alcune categorie, come i florovivaisti o i produttori dell’ortofrutta, sono stati lungamente oggetto del dibattito a livello politico e dell’opinione pubblica, per altre categorie, finora, si è detto e fatto molto poco.

In questi giorni, infatti, è il settore suinicolo a lanciare il proprio grido di allarme: la situazione del mercato è critica e, al momento, le prospettive sono tutt’altro che rosee. Ma andiamo con ordine.

In Italia, mediamente, vengono macellati circa 230.000 capi alla settimana, circa 12.000.000 all’anno. Le carni ottenute, poi, vengono destinate ad un mercato i cui consumi sono trainati dal settore HO.RE.CA. (acronimo di Hotellerie-Restaurant-Café).

Viene pertanto semplice intuire quali possano essere le conseguenze della prolungata chiusura di ristoranti e pub, nonché della lunga clausura a cui è stata sottoposta la popolazione.

In poche settimane, i consumi legati alla ristorazione si sono ridotti di oltre il 40% e il recupero dato dal maggior consumo domestico è soltanto una goccia nel mare, totalmente insufficiente a compensare le perdite. E non si pensi solo ai consumi legati a tali attività: ad essi vanno anche aggiunti i relativi (e abbondanti) sprechi. Va considerato, poi, che il blocco del turismo e la flessione dell’export hanno ulteriormente aggravato la situazione.

Inoltre, la forte contrazione della domanda ha prodotto un surplus di produzione che, in questo caso, è difficilmente gestibile: se in alcuni comparti la sovraproduzione può essere stoccata o smaltita facilmente (chiaramente a fronte di un aumento dei costi), nel settore dell’allevamento gli animali restano nella stalla, continuano a mangiare e devono essere accuditi.

Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, nelle ultime sette settimane sono stati macellati circa 30.000 suini in meno alla settimana rispetto alla media e l’invenduto può essere stimato, ad oggi, in circa 240.000 capi. Ciò provoca, da una parte, un aumento dei costi di mantenimento in capo agli allevatori, mentre dall’altro gli animali continuano a crescere, peggiorando la qualità delle proprie carni e diventando sempre più difficilmente collocabili sul mercato.

Gli effetti di questo surplus di produzione, poi, sono facilmente misurabili nei bollettini dei prezzi settimanalmente diffusi dal MIPAAF: se il 5 marzo, per i suini della categoria 160/176 kg, il prezzo indicativo era fissato tra 1,590 euro e 1,605 euro al kg, tale prezzo è crollato fino a 1,102 euro al kg del 14 maggio e sarebbe probabilmente calato ulteriormente se il regolamento CUN non prevedesse una variazione settimanale massima pari a 0,05 euro.

Da non dimenticare, inoltre, il comparto prosciutti che, alla data odierna, non offre un solo “gancio” disponibile su tutto il territorio nazionale.

Con i prezzi in picchiata e la domanda praticamente ferma, i macelli e le aziende di trasformazione stanno iniziando a ridurre le proprie produzioni. Ma per gli allevatori non è altrettanto facile rallentare, finendo così per essere la parte più debole della filiera, quella su cui rischia di riversarsi il grosso dell’impatto della crisi.

A proposito di filiera, la situazione attuale ha messo in luce tutte le criticità di un sistema che dovrebbe tutelare e proteggere gli operatori del settore, ma che si sta rivelando totalmente inadeguato a rispondere all’emergenza, mettendo in luce un diffuso orientamento a ragionare “ognun per sé e Dio per tutti”, anziché fare fronte comune contro le difficoltà.

Sicuramente, l’attuale situazione impone una profonda riflessione sull’organizzazione da assumere e sulle prospettive di un sistema che già prima del coronavirus viveva uno stato di profonda crisi, sia dal punto di vista dell’appeal a livello internazionale (l’Italia esporta 11 milioni di prosciutti, la Spagna oltre 50 milioni), che dell’autosufficienza (l’Italia produce solo il 65% del suo fabbisogno).

Inoltre, il suino prodotto in Italia è un prodotto poco versatile, ottimo per la produzione di prosciutti e salumi, ma poco appetibile sul mercato del fresco, dove i prodotti di altri Stati europei hanno conquistato ormai ampie quote di mercato.

Concludendo, non resta che rimboccarsi le maniche e prepararsi ad affrontare tempi duri: almeno fino al 2021, l’intero settore dovrà confrontarsi con una domanda ridotta, con la sovraproduzione da smaltire e con una grande incertezza.

In questo momento, lo Stato deve stare vicino agli allevatori, offrendo aiuti ed agevolazioni per sostenere le aziende ed il mercato.

Un aiuto immediato e tangibile potrebbe essere quello della riduzione della forbice IVA fra l’aliquota ordinaria del 10% e la percentuale di compensazione pari al 7,95%.

Basterebbe, infatti, portare l’aliquota di compensazione all’8,95% per aver fornito un contributo immediato e concreto pari all’1%.

L’auspicio è che, anche in questo difficile momento, prevalga sempre il buon senso e soprattutto continui a valere quel proverbio che affonda le sue radici nella notte dei tempi: del maiale non si butta via niente…o, almeno, si spera.


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