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del prof. Angelo Frascarelli, docente di politica agroalimentare
Dal 2016, i prezzi del grano duro hanno evidenziato una fase di perdurante stagnazione; solo la nuova campagna di commercializzazione 2019/2020 ha manifestato qualche segnale di ripresa.
La crisi del mercato deriva da un raccolto mondiale elevato e da stock mondiali abbondanti, ma anche da una specifica situazione nazionale: l’Italia sconta una cronica debolezza strutturale nella scarsa capacità a strutturare una filiera organizzata ed efficiente.
La filiera della pasta
L’itinerario della filiera del “grano duro - pasta” può essere sintetizzato nei seguenti passaggi (fig. 1):
la produzione agricola italiana di 4,3 milioni di tonnellate (media degli ultimi 5 anni) viene realizzata su un superficie di 1,2 milioni di ettari, concentrati per il 60% su 4 regioni italiane: Puglia, Sicilia, Emilia Romagna e Marche;
la commercializzazione del grano duro viene effettuata per circa il 50% dai consorzi agrari- cooperative-OP che vendono interamente il prodotto all’industria molitoria. Un ruolo rilevante lo detengono i commercianti privati che veicolano circa il 35% dell’offerta nazionale, quasi totalmente indirizzata verso i mulini e solo in misura residua destinata all’export. Il conferimento diretto della granella da parte delle aziende agricole verso l’industria molitoria è limitato a circa il 15% del totale;
una quota di circa il 10%, che può variare da anno ad anno, è costituita dalle scorte necessarie ai mulini per garantirne il fisiologico funzionamento degli impianti;
le importazioni seguono essenzialmente due canali. L’industria molitoria assorbe direttamente circa il 60% dei quantitativi importati provenienti quasi esclusivamente dai Paesi comunitari. Il rimanente 40% è importato dai commercianti privati/società di commercio che effettuano approvvigionamenti diretti dai paesi extracomunitari;
la produzione industriale di pasta supera i 3 milioni di tonnellate. Oltre il 50% dell’offerta nazionale viene collocata sui mercati esteri all’interno dei quali prevalgono i Paesi della UE (65%); la rimanente quota è destinata al consumo interno (Fonte: ISMEA).
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