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L’attività di allevamento, disciplinata nel nostro ordinamento dall’art. 2135 del Codice Civile, a seguito delle disposizioni attuate dalla riforma del D.L. n. 57/2001, ha subito particolari innovazioni rispetto al passato.
Dal 2001, infatti, l’utilizzo del fondo è divenuto elemento solamente eventuale. L’attività di allevamento, per potersi considerare quale agricola, deve pur sempre essere esercitata in connessione ad un fondo, ma non necessariamente su di esso.
Ciò è chiaramente desumibile dall’art. 2135 del codice civile che in tal senso recita: “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.
Il criterio della connessione solo potenziale con il terreno agricolo viene recepito dal legislatore anche ai fini fiscali, infatti all’art. 32, comma 2 lett. b) viene espressamente previsto che rientra nel reddito agrario “l'allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno […]”.
Con la definizione sopra richiamata il legislatore ha evidentemente voluto ricondurre l’attività di allevamento ricompresa nel reddito agrario alla capacità solo potenziale dei terreni a produrre i mangimi necessari all’allevamento degli animali.
Nel caso in cui si superino i limiti dettati dall’art. 32 il legislatore in relazione agli animali eccedenti, ha introdotto uno specifico criterio di determinazione forfettaria del reddito, denominato “a parametri” e disciplinato dall’art. 56 comma 5 del TUIR .
I riflessi fiscali dell’attività di allevamento sono quindi differenti a seconda che:
Da queste tre diverse fattispecie di allevamento ne conseguono tre diverse forme di tassazione, in particolare: