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Nell’ambito dell’economia agricola si sta sempre più affermando il fenomeno delle cosiddette “esternalizzazioni”, ossia l’affidamento a imprese terze dello svolgimento di alcune fasi del processo produttivo. Accanto al tradizionale “contoterzismo” si assiste, infatti, allo sviluppo di altre forme di outsourcing che riguardano, per lo più, fasi del processo produttivo in cui prevalgono l’elemento umano e il lavoro manuale. Non è, pertanto, insolito riscontrare che grandi imprese agricole affidino a cooperative di produzione e lavoro l’incarico di svolgere, presso la propria azienda, attività c.d. “labour intensive”, cioè caratterizzate dall’impiego di personale occupato in mansioni a contenuto specialistico relativamente basso. L’opzione è di per sé lecita, tuttavia non esente da rischi di rilievo, in ragione del severo regime di responsabilità solidale condiviso con la cooperativa, dell’autonoma posizione di garanzia in materia di sicurezza sul lavoro, nonché della possibilità di incorrere nelle fattispecie illecite connesse all’intermediazione di manodopera.
Un’impresa è libera di appaltare a una cooperativa di produzione e lavoro l’esecuzione di opere o servizi, affidandole una fase del proprio ciclo produttivo, anche all’interno dei locali aziendali, a condizione che quest’ultima sia tecnicamente idonea a svolgere il servizio richiesto, disponga dei mezzi e delle risorse necessarie, si assuma il rischio d’impresa ed eserciti in concreto i poteri datoriali1.
Ciò posto, prima di stipulare il contratto, la committente deve effettuare, attraverso attività documentata, una serie di controlli atti a verificare in capo alla cooperativa: