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La Rivista | nº 04 Aprile 2022


Nell'ambito dell'attività florovivaistica la prova dell'evasione grava sull'Agenzia delle Entrate

di Vanni Fusconi, avvocato
e Soraya Oletto, dottoressa in Economia e Commercio

Nel settore dell’agricoltura, quando si incorre in una verifica fiscale, il contribuente ha spesso il timore di dover giustificare l’applicazione di un regime fiscale vantaggioso di cui molto spesso si abusa.

Tale preoccupazione nasce dal fatto che a fronte di contestazioni a volte prive di riscontro probatorio, l’imprenditore agricolo non riesce a dimostrare, a distanza di anni, lo svolgimento di determinate attività. Pertanto, al cospetto di queste dinamiche, si trova a preferire definizioni stragiudiziali, non sempre così vantaggiose, piuttosto che affrontare l’alea del giudizio.

Occorre però ricordare che nel processo tributario l’onere della prova grava sul soggetto che intende far valere il proprio diritto, ossia l’Agenzia delle Entrate, la quale è sempre tenuta a dimostrare il fondamento delle proprie pretese.

Per questo motivo, prima di decidere se definire gli atti emessi dai verificatori o se rivolgersi alle Commissioni Tributarie, occorre interrogarsi sempre su chi grava l’onere probatorio e se tale soggetto abbia correttamente adempiuto ai propri doveri.

L’onere della prova

Nel giudizio tributario è ormai pacifico il principio secondo cui l’onere della prova debba essere ripartito secondo le regole ordinarie proprie del processo civile, ossia considerando la posizione sostanziale delle parti in giudizio e secondo la regola ordinaria dettata dall’art. 2697 c.c.:

  • l’Amministrazione Finanziaria, pur essendo formalmente convenuta nel processo, è in realtà la parte che fa valere una propria pretesa (attrice in senso sostanziale) e deve, pertanto, provare i fatti costitutivi del proprio diritto;
  • il contribuente (attore in senso formale, ma convenuto in senso sostanziale) deve invece provare i fatti estintivi, impeditivi o modificativi di tale diritto.

L’onere probatorio va poi circoscritto sulla base della tipologia dell’oggetto del giudizio:

  1. 1. i giudizi di impugnazione di atti impositivi;
  2. 2. i giudizi di ripetizione di somme indebitamente corrisposte;
  3. 3. i giudizi vertenti sull’applicabilità di un’esenzione o di un’agevolazione.

Con specifico riferimento al terzo punto, si precisa che il contribuente è attore sia in senso formale che in senso sostanziale e, pertanto, lo stesso avrà l’onere di provare la sussistenza delle circostanze da cui deriva o l’esenzione o l’agevolazione di cui ha usufruito.

Al fine di determinare, quindi, chi debba assolvere l’onere probatorio in sede di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate sulla corretta applicazione dei redditi agrari, occorre analizzare brevemente il regime fiscale di cui all’art. 32 del TUIR.

Questo regime, sicuramente vantaggioso per gli imprenditori agricoli, può essere considerato alla stregua di un’agevolazione fiscale? Se così fosse, l’onere di probatorio sarebbe del contribuente che, come visto, è colui che ha l’onere di provare la sussistenza delle circostanze che gli permettono di fruire dell’agevolazione.

Tale norma consente alle imprese agricole e alle società semplici che esercitano le attività di cui all’art. 2135 c.c. di determinare il proprio reddito su base catastale; pertanto gli imprenditori agricoli non determinano il reddito in maniera analitica (ricavi - costi), ma imputano in dichiarazione la quota di reddito agrario e di reddito dominicale appositamente rivalutato determinato sulla base delle tariffe d’estimo relative ai terreni in conduzione.

Il regime di cui all’art. 32 del TUIR può rappresentare indubbiamente un regime vantaggioso per l’imprenditore agricolo, ma non bisogna dimenticare che lo stesso rappresenta il regime naturale per gli imprenditori e le società semplici che svolgono le attività agricole di cui all’art. 2135 c.c.

Inoltre, a differenza dei regimi agevolati che determinano sempre un vantaggio per il contribuente, l’applicazione dell’art. 32 del TUIR può portare, talvolta, al concretizzarsi di circostanze penalizzanti per l’imprenditore.

Infatti, il reddito agrario fa parte dei redditi fondiari che, in virtù di quanto previsto dall’art. 26 del TUIR, […] concorrono, indipendentemente dalla loro percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale, salvo quanto previsto dall’art. 30, per il periodo di imposta in cui si è verificato il possesso.

Sostanzialmente, gli elementi positivi di reddito confluiscono in dichiarazione a prescindere dalla loro effettiva percezione o, addirittura, se nell’anno si è registrata una perdita. È il caso questo, non sporadico, in cui l’imprenditore agricolo, a seguito di onerosi investimenti, registra solo costi ma, a causa di interventi calamitosi, si vede completamente azzerata la propria produzione. Ebbene, il contribuente, nonostante consegua un risultato di esercizio negativo (perdita), dovrà comunque dichiarare un reddito “figurativo” (c.d. reddito su base catastale) anche se non realmente conseguito. Inoltre, le perdite d’esercizio dovranno essere considerate perse, non potendosi usufruire delle stesse nemmeno negli esercizi successivi.

Alla luce di ciò, appare evidente che ricomprendere il regime di tassazione su base catastale nella categoria delle agevolazioni fiscali non può essere considerato corretto, perlomeno ogni qualvolta ci si trovi al cospetto del regime naturale proprio di imprese agricole individuali e di società semplici.

Dunque, se il regime di determinazione del reddito su base catastale di cui all’art. 32 del TUIR non può essere considerato un regime agevolativo, troverà applicazione la regola generale di cui all’art. 2697 del Codice Civile, in base al quale l’onere della prova grava sul soggetto che intende far valere in giudizio un proprio diritto, quindi l’Agenzia delle Entrate.

Il fatto che la corretta applicazione dell’art. 32 debba essere provata dall’Amministrazione Finanziaria è stato di recente confermato anche da una Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna che si è trovata a trattare il caso di un florovivaista a cui veniva disconosciuto lo svolgimento dell’attività agricola principale a causa del fatto che lo stesso non sarebbe stato in grado di dimostrare né l’attività di coltivazione fuori suolo e né l’attività connessa di manipolazione delle piante acquistate da terzi.

La Sentenza

La controversia su cui si sono espressi i Giudici di Bologna con la Sentenza n. 231/2022 nasce da una verifica fiscale svolta nei confronti di un florovivaista a cui la Guardia di Finanza aveva contestato che l’attività svolta era interamente di tipo commerciale, disconoscendo quindi qualsivoglia attività agricola, con la conseguenza che la totalità dei redditi prodotti dovevano essere ricompresi tra i redditi di impresa.

A seguito dell’emanazione del PVC, l’Agenzia delle Entrate notificava al contribuente un avviso di accertamento che riprendeva interamente le contestazioni mosse dalla Guardia di Finanza.

Al solo fine di non vedersi disconosciuta l’attività agricola, il contribuente presentava istanza di accertamento con adesione, dichiarando che alcune tipologie di piante acquistate da terzi erano “potenzialmente commerciali”, poiché in uno stato vegetativo tale da consentire la loro rivendita senza che sulle stesse fosse necessario svolgere un’ulteriore fase di coltivazione.

Tale dichiarazione è stata poi utilizzata dall’Ufficio anche per emettere gli ulteriori avvisi di accertamento relativi agli anni successivi, con cui venivano attratte nel reddito di impresa tutte le vendite relative alle piante che il contribuente aveva dichiarato come “potenzialmente commerciali” in sede di adesione, oltre ad altre tipologie di vegetali arbitrariamente selezionate dall’Ufficio.

In buona sostanza, i verificatori individuavano alcune tipologie di piante sulle quali veniva disconosciuta una qualsivoglia attività agricola (principale e connessa) e i ricavi derivanti dalla vendita di tali tipologie di piante, per ciascun anno oggetto di accertamento, venivano tassati a costi e ricavi.

I Giudici di primo grado di Bologna hanno rigettato le pretese dell’Ufficio ribadendo due principi fondamentali:

  1. 1. l’autonomia fattuale e giuridica dei singoli periodi di imposta;
  2. 2. che l’onere della prova in merito alla corretta applicazione della determinazione dei redditi su base catastale ex art. 32 del TUIR ricade sull’Ufficio.

Unicità del periodo di imposta

Secondo i Giudici, la materia del contendere impone di accertare se l’attività svolta dal contribuente sia un’attività agricola o un’attività commerciale.

A tale scopo, la Commissione rileva che in virtù del principio fondamentale dell’imposizione fiscale costituito dall’inerenza e dalla riferibilità dei dati ad uno specifico periodo di imposta, non si possono fondatamente ricavare, da un atto di adesione riguardante un preciso anno di imposta, elementi utili per accertare la capacità contributiva del ricorrente per un anno diverso.

Sostanzialmente, così come chiarito anche nella Sentenza della Corte di Cassazione n. 27008/2007, l’autonomia fattuale e giuridica di ciascuna annualità esclude che l’accertamento operato per un periodo di imposta possa estendersi in via presuntiva con riferimento al reddito imponibile di un altro periodo di imposta in virtù della costanza dei flussi reddituali in anni diversi (anteriori e/o successivi) da quello per il quale si deve accertare la produzione di un determinato reddito.

Tale principio trova maggior conferma nel caso in esame poiché si è al cospetto di attività svolte su esseri viventi che non possono di certo essere sottoposti in ciascun anno alle medesime lavorazioni o manipolazioni.

L’onere della prova a carico dell’Agenzia delle Entrate

Per quanto riguarda la corretta attribuzione dell’onere probatorio, i Giudici di primo grado hanno ripercorso i principi cardine che regolano la tassazione dei redditi su base catastale, per poi chiarire che le circostanze che fanno decadere il contribuente da tale regime debbono essere provate dall’Ufficio.

Come si legge nelle motivazioni riportate nella Sentenza, ai fini fiscali è titolare del reddito agrario colui che esercita una delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. ossia attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale, non necessariamente utilizzando il fondo.

Eliminando il collegamento con la terra quale presupposto imprescindibile per considerare agricola l’attività imprenditoriale, la norma ha espresso la chiara volontà del legislatore di considerare imprenditore agricolo anche chi esegue la coltivazione di vegetali in serre o in vivai, anche se le piante non sono messe a dimora nel terreno ma in vaso, o chi effettua coltivazioni fuori terra.

Al terzo comma, l’art. 2135 c.c. prevede poi che debbono intendersi comunque connesse le attività esercitate dal medesimo imprenditore agricolo dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti agricoli.

Dal punto di vista civilistico, quindi, le attività agricole possono essere così riassunte:

  • attività principale di coltivazione (cura e sviluppo di almeno una fase essenziale del ciclo biologico);
  • attività connessa di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti agricoli.

Come si evince dal tenore letterale della norma, dal punto di vista civilistico è possibile far rientrare tra le attività agricole anche le piante acquistate da terzi e direttamente commercializzate (senza che sulle stesse venga effettuata alcuna attività), purché venga rispettato il requisito della prevalenza. In buona sostanza, le piante acquistate da terzi non possono essere prevalenti rispetto a quelle derivanti dall’attività principale di coltivazione.

La disciplina fiscale relativa alle attività connesse, invece, più stringente di quella civilistica, richiede il rispetto di determinati requisiti invocati dall’art. 32 del TUIR e ripresi anche dai documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate.

Nello specifico, la lettera c), 3° comma dell’art. 32, ricomprende nel reddito agrario “le attività di cui al terzo comma dell’articolo 2135 del Codice Civile, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, con riferimento ai beni individuati, ogni due anni e tenuto conto dei criteri di cui al comma 1, con Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze su proposta del Ministro delle politiche agricole e forestali”.

In sostanza, così come indicato anche nella Circolare 44/E del 2004 dell’Agenzia delle Entrate, la rivendita di prodotti agricoli acquistati da terzi, quando ricompresi nel D.M. 13/02/2015, può essere ricondotta ad un’attività agricola connessa, e come tale beneficiare delle normative e delle agevolazioni che caratterizzano il settore dell’agricoltura, solo qualora detti prodotti siano oggetto di attività di trasformazione o manipolazione e rispettino il requisito della prevalenza.

Per il settore del florovivaismo, tali concetti sono stati chiariti nella Consulenza Giuridica protocollo n. 95472/2014, poi ripresa dall’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione 11/E/2018, in cui si legge che vanno ricomprese nel concetto di manipolazione, applicabile alle piante, le seguenti attività: concimazione; inserimento all’interno del terriccio di retentori idrici al fine di garantire la shelf-life del prodotto, sia durante il trasporto che durante la fase di permanenza delle stesse presso il cliente; trattamento delle zolle, al fine di eliminare gli insetti nocivi all’apparato radicale; potatura; steccatura; rinvasatura.

Pertanto, i redditi derivanti dalla rivendita di piante fatte oggetto delle suddette operazioni, purché sia rispettato il principio della prevalenza dei prodotti propri, sono attratti ed assorbiti dal reddito agrario.

Quindi, per poter inquadrare i ricavi delle vendite nel reddito agrario, ciò che rileva sono le attività svolte dall’imprenditore agricolo nel lasso di tempo che intercorre tra l’acquisto di una pianta e la sua rivendita al cliente e tali attività, così come chiarito dalla CTP di Bologna, debbono essere dimostrate dall’Agenzia delle Entrate. Riteniamo a questo proposito che tale onere è ribaltato solo se l’Agenzia delle Entrate è in grado di dimostrare che le piante sono rimaste in azienda per un lasso di tempo talmente breve da escluderne la manipolazione.

Così come riportato dai Giudici, l’asserzione dell’Ufficio “non risulta corroborata da alcun elemento idoneo a provare, in modo rigoroso ed inequivocabile, l’effettiva commercializzazione delle piante immediatamente dopo il loro acquisto. […] L’Agenzia delle Entrate, dunque, non ha provato se e, nel caso, in quale percentuale le piante “potenzialmente idonee alla commercializzazione” sono state immediatamente vendute dalla ditta dopo il loro acquisto”.

Così come si legge nelle conclusioni della Sentenza commentata, il fatto che l’Ufficio abbia contestato l’applicazione dell’art. 32 del TUIR, comporta che lo stesso debba dimostrare che il contribuente abbia realizzato un’attività di tipo commerciale. Non avendolo fatto, l’accertamento è stato dichiarato illegittimo dalla Commissione giudicante.

 

 


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