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Il contratto di soccida fonda le sue origini nella tradizione dell’agricoltura italiana e nel tempo ha visto una grande evoluzione, tanto che oggi è una delle principali forme contrattuali su cui si basa l’attività di allevamento nel nostro Paese.
L’evoluzione di questa forma di contratto ha visto, negli anni, il diffondersi della c.d. soccida “monetizzata” in cui le parti scelgono di non ripartirsi gli animali (venduti integralmente dal soccidante) ma di liquidare la quota di accrescimento di spettanza del soccidario con una somma di denaro.
Secondo un orientamento della giurisprudenza ormai consolidato, ma non condiviso dai nostri esperti, la soccida monetizzata genera in capo al soccidario operazioni non soggette ad IVA e, conseguentemente, in caso di opzione per il regime normale (IVA da IVA), preclude il diritto alla detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti inerenti all’attività di allevamento in soccida (Cassazione sent. n. 8727/2013 e n. 27715/2013).
In alcuni casi può capitare che il soccidario, dopo aver ricevuto la propria quota di animali, non la ceda a terzi, ma la venda direttamente al soccidante con emissione di regolare fattura. Ebbene, questa operazione è molto spesso attenzionata dall’Ufficio che, soprattutto in presenza di contratti non proprio chiari, tende a riqualificare l’operazione in un contratto di soccida monetizzata con il conseguente disconoscimento della detrazione dell’IVA in capo al soccidario.
Questa problematica, già oggetto di uno specifico approfondimento da parte dei nostri esperti[1] vede ora i primi pronunciamenti della giurisprudenza di merito.
La CTP di Verona con la sentenza n. 79/2017 ha accolto il ricorso del contribuente ritenendo necessario dare rilievo all’effettiva volontà delle parti.
Nella circostanza, la commissione, prendendo atto che da anni il rapporto tra le parti era regolato attraverso la ripartizione degli animali con successiva emissione della fattura da parte del soccidario, ha affermato che “la consegna di tutti gli animali al soccidante al termine del contratto non costituisce nulla di più e di diverso dall’obbligo stabilito dall’art. 2181 c.c. ed è finalizzato al conteggio dei capi ed alle quote di spettanza (di proprietà) di soccidante e soccidario; che poi il conteggio venga effettuato prima della macellazione o successivamente, non ha alcun significato decisivo per l’interpretazione del contratto, atteso che le fatture vengono emesse prima della macellazione con riferimento agli animali vivi e che si tratta di modalità di distribuzione degli utili fissate legittimamente dalle parti cui non può darsi un significato simulatorio rispetto alla non prevista monetizzazione nel contratto”.
Riteniamo condivisibile l’orientamento del collegio giudicante che ha ritenuto valutare la reale volontà delle parti come disposto dall’art. 1362 del c.c.. Pertanto, il collegio ha verificato se le parti avessero effettivamente messo in pratica gli elementi caratterizzanti il contratto di soccida semplice.
Le parti, infatti, avevano provveduto al calcolo ed alla ripartizione degli accrescimenti e la monetizzazione era rimasta una condizione “opzionale”, mai attivata dal soccidario.
Il soccidario al termine del contratto è quindi divenuto proprietario degli animali di propria spettanza e, conseguentemente, avendone titolo ha provveduto alla successiva vendita applicando l’IVA. Cosicché, l’IVA sulle fatture di acquisto dei beni per l’allevamento risultava detraibile.
[1] “L'Agenzia delle Entrate riqualifica i contratti di soccida” di Vanni Fusconi e Sauro Garavini – Rivista ConsulenzaAgricola 03/2019.