Con la Sentenza n. 11592/2021, la Corte di Cassazione ha negato la detraibilità IVA all’imprenditore agricolo che ha esercitato congiuntamente l’attività di soccidario, per la quale è stato remunerato in denaro, e l’attività di allevamento in proprio.
La detrazione dell’IVA, in presenza di un contratto di soccida, opera in maniera differente a seconda dei seguenti casi:
- se soccidante e soccidario vendono la loro parte di bestiame, entrambe le parti effettuano un’operazione soggetta ad IVA, pertanto l’Imposta assolta sugli acquisti dei beni necessari allo svolgimento dell’attività potrà essere detratta;
- Se è solo il soccidante a vendere il bestiame con la monetizzazione degli utili al soccidario, solo il soccidante potrà detrarre l’IVA assolta sugli acquisti (sul tema si veda l’articolo della Rivista n. 03 Marzo 2019 - L’Agenzia delle Entrate riqualifica i contratti di soccida).
Nel caso in cui l’allevatore svolga sia attività di allevamento in soccida monetizzata sia l’attività di allevamento in proprio, avendo costi promiscui, come può detrarre l’IVA?
Nel caso esaminato dai Giudici, l’Agenzia delle Entrate aveva negato la detraibilità dell’imposta in quanto il contribuente non aveva distinto l’IVA detraibile, connessa all’attività di allevamento esercitata in proprio, dall’IVA indetraibile, inerente al rapporto di soccida con monetizzazione degli utili.
L’Ufficio, per ricostruire la quota d’imposta non detraibile, sulla scorta dei principi di cui all’art. 19, commi 2 e 4, D.P.R. 633/1972, aveva applicato una ripartizione sulla base dei ricavi delle due attività.
La norma richiamata stabilisce che “non è detraibile l'imposta relativa all'acquisto o all'importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all'imposta, salvo il disposto dell'articolo 19-bis2 […] Per i beni ed i servizi in parte utilizzati per operazioni non soggette all'imposta la detrazione non è ammessa per la quota imputabile a tali utilizzazioni e l'ammontare indetraibile è determinato secondo criteri oggettivi, coerenti con la natura dei beni e servizi acquistati”.
I Giudici della CTR hanno sconfessato tale modus operandi sulla base di due presupposti: in primo luogo, i Giudici evidenziano che l’attività svolta dal soccidario era classificata come “allevamento di bovini e bufalini, produzione di latte crudo”, pertanto occorreva considerare che le vendite di bovini per la produzione di latte non erano così frequenti come quelle per la produzione di carne; in secondo luogo, i Giudici della CTR sottolineavano che, dall’esame della contabilità (fatture, registri IVA, ecc.), risultava la pertinenza delle fatture di acquisto, di bestiame e mangimi, all’attività propria di allevamento esercitata dal contribuente.
Infine, la CTR ha ritenuto che la tesi dell’Ufficio, che ha ricostruito la quota di imposta non detraibile ritenendo che “l’imposta complessivamente assolta a monte sia destinata a ciascuna delle due attività in rapporto ai ricavi di ciascuna di esse rispetto ai ricavi complessivi”, non risulterebbe in ogni caso corretta, non essendo supportata da logica contabile.
La Cassazione non ha però condiviso le conclusioni della CTR, poiché le stesse non sarebbero supportate da evidenze probatorie e, quindi, non congrue sotto il profilo motivazionale.
Sarà ora il Giudice di rinvio a dover individuare elementi probatori in grado di motivare l’inutilizzabilità del criterio proposto dall’Agenzia delle Entrate.
Dunque, per evitare contestazioni sulla detraibilità dell’IVA per costi promiscui, l’unico accorgimento possibile sembrerebbe quello di tenere, ove possibile, la contabilità separata per le due attività.
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