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La fascia confinaria rappresenta una porzione di terreno, solitamente di dimensioni ridotte, mantenuta dal proprietario alienante tra il fondo oggetto di vendita e quello del proprietario confinante.
Tale striscia viene spesso lasciata intenzionalmente per interrompere la contiguità fisica tra i due fondi, ostacolando così l’esercizio del diritto di prelazione agraria del confinante.
Affinché la fascia confinaria abbia efficacia giuridica nel precludere la prelazione, deve possedere autonomia agronomica e funzionale: deve cioè essere idonea ad essere coltivata, anche con produzioni di reddito modesto, ed avere utilità per l’alienante. Non è necessario che produca un’elevata redditività, ma deve risultare suscettibile di sfruttamento coltivo autonomo. Se invece è sterile, incolta o inidonea a qualsiasi uso agricolo, può essere considerata artificiosa e finalizzata a eludere la prelazione.
L’ordinanza della Corte di Cassazione del 23 settembre 2024, n. 25412[1], offre un contributo rilevante in materia di prelazione agraria e, in particolare, proprio sul ruolo della cosiddetta “fascia confinaria” nella configurazione o nell’esclusione del diritto di prelazione del proprietario del fondo confinante. Il provvedimento ribadisce un orientamento consolidato, chiarendo che il frazionamento di un fondo rustico e la vendita di sole porzioni non costituisce di per sé un artificioso diaframma volto a eludere la prelazione, salvo che la porzione residua interposta sia priva di qualsiasi utilità agronomica e destinata a rimanere sterile e incolta.
La Corte conferma che il confine tra elusione e legittimo esercizio dell’autonomia negoziale risiede nella valutazione della concreta idoneità della striscia interposta a costituire un appezzamento autonomamente coltivabile. Solo laddove la porzione residua sia inidonea a qualsiasi sfruttamento agricolo e irrimediabilmente improduttiva, essa può considerarsi artificiosa e finalizzata esclusivamente a impedire la prelazione agraria.
Sul piano giurisprudenziale, la Cassazione richiama precedenti significativi, tra cui la Sentenza n. 13368/2018 e Cass. 9 aprile 2003, n. 5573, ribadendo che l’onere probatorio grava sull’attore, il quale deve dimostrare che la fascia confinaria è inutilizzabile ai fini produttivi. Il riscatto è quindi ammesso solo se la fascia è priva di utilità e destinata a rimanere incolta, condizione che consente di qualificarla come artificiosa.
La vicenda concreta prende origine da un’azione di riscatto avanzata dal proprietario confinante, secondo il quale il frazionamento e la stipula di un contratto di affitto sarebbero stati strumenti simulatori volti a eludere la prelazione. Tuttavia, la consulenza tecnica d’ufficio ha evidenziato che la striscia di terreno non alienata era perfettamente idonea a coltivazioni autonome e potenzialmente redditizie, escludendo così l’artificiosità dell’operazione.
La diatriba dottrinale sulla nozione di contiguità emerge con chiarezza: da un lato, la teoria “funzionale”, secondo cui la contiguità non richiede necessariamente la fisica adiacenza, ma può ravvisarsi anche in presenza di elementi separatori naturali o artificiali, purché i fondi siano funzionalmente aggregabili in un’unica azienda agricola (Sentenza n. 11905/2025; Cass. 21 febbraio 1985, n. 1548).
Dall’altro, la teoria “materiale”, oggi prevalente, ammette la prelazione solo in presenza di contatto fisico e immediato tra i fondi, escludendola nei casi di interposizione di strade o fasce di terreno produttive (Cass. Sez. Un. 25 marzo 1988, n. 2582; Cass. 20 gennaio 2006, n. 1106).
L’ordinanza in commento si colloca chiaramente nel solco della tesi “materiale”. In questa prospettiva, diviene legittimo l’inserimento di una striscia di terreno interposta, purché dotata di autonomia agronomica e suscettibile di sfruttamento, anche se di limitata estensione.
Tuttavia, l’applicazione rigida della contiguità materiale solleva perplessità rispetto alla ratio del legislatore, il cui obiettivo era favorire l’accentramento fondiario e contrastare la frammentazione delle aziende agricole, incentivando forme spontanee di ricomposizione fondiaria. La prelazione agraria, infatti, è concepita come strumento di politica agraria, volto alla tutela dell’interesse collettivo e al consolidamento delle imprese agricole esistenti.
Un elemento di rilievo emerso dalla pronuncia è la precisazione della Corte secondo cui la fascia confinaria non deve necessariamente generare un reddito elevato. È sufficiente che sia idonea, anche solo potenzialmente, a garantire un “reddito dignitoso”, risultando quindi coltivabile e autonomamente sfruttabile, come evidenziato anche dalla consulenza tecnica nel caso in esame (florovivaismo, fungaie, coltivazioni orticole da seme).
In conclusione, l’Ordinanza n. 25412/2024 consolida un orientamento giurisprudenziale restrittivo in tema di prelazione agraria, affermando un principio chiave: l’esercizio del diritto di prelazione del confinante è escluso se la fascia interposta, pur esigua, è agronomicamente autonoma e suscettibile di sfruttamento produttivo. Tale principio riduce l’incertezza interpretativa, favorendo stabilità nei trasferimenti dei fondi rustici, ma al contempo solleva interrogativi sulla coerenza con le finalità originarie del legislatore agrario.
[1] Si veda anche l’Articolo redatto dall’Avv.to Ludovica Asia Colombo, intitolato “La presenza di una “fascia confinaria” ed i limiti alla prelazione agraria del proprietario confinante: l’orientamento della Cassazione”, pubblicato sul n. 11/2024 della Rivista – Consulenza Agricola.